Il 15 dicembre scorso è cominciata l’udienza preliminare del processo sulle violenze avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nella Settimana Santa del 2020.
Per motivi di spazio e di ordine pubblico il tribunale ha deciso di celebrare le udienze nell’aula bunker dell’istituto sammaritano. L’aula si trova di fianco all’istituto e si articola come una costola di cemento che comunica con l’area detentiva attraverso un cortile. L’ingresso, per chi non è detenuto o in servizio nel carcere, si raggiunge percorrendo una strada stretta e in parte sterrata che costeggia i campi coltivati a friarielli che si distendono di fronte la discarica.
Avvocati, giornalisti, imputati erano accalcati in attesa della prima udienza in mezzo alle campagne; in una fila scomposta attendevano di consegnare i documenti per oltrepassare il check point di guardie. Qualche responsabile sindacale della polizia rilasciava alcune dichiarazioni ai pochi giornalisti accorsi, speranzosi di dare in pasto all’opinione pubblica chissà quale scoop sensazionale.
Per accedere alle due grosse stanze si scendono alcune scale e poi si percorre un corridoio sotterraneo, come quello degli stadi: in una prima sala, il tribunale compare fisicamente davanti alle parti; nell’altra, invece, comunica in videoconferenza. Le gabbie di ferro si trovano alle spalle delle scrivanie dove siedono gli avvocati
La prima udienza si conclude con il deposito delle istanze di costituzione di parte civile delle persone offese: circa un terzo dei detenuti e dei familiari individuati dalla procura della Repubblica ha chiesto di costituirsi nel processo. Tra questi ci sono la madre, il padre e il fratello gemello di Lamine Hakimi, il ragazzo algerino morto un mese dopo i fatti in una cella di isolamento del carcere. Secondo gli investigatori quel suicidio è stato causato dall’abbandono colpevole dei dirigenti, dei secondini e del personale medico, che avrebbero dovuto curare il corpo e la mente di Hakimi dopo il massacro ricevuto. Oltre ai detenuti e ai familiari, hanno chiesto di costituirsi parte civile il ministero di giustizia, l’Asl casertana, il Garante nazionale delle persone private della libertà, il Garante regionale delle persone private della libertà e quattro associazioni: Antigone, Acad, il Carcere possibile e Yaraiha ONLUS. Il giudice ha rinviato il processo all’11 gennaio 2022, momento in cui le difese degli imputati potranno discutere le proprie eccezioni alle costituzioni delle persone offese.
Passa quasi un mese. I contagi sono cresciuti e la narrazione della pandemia è tornata a perforare i tessuti collettivi. Nonostante gli impedimenti causati dall’epidemia che stanno paralizzando la pubblica amministrazione, l’udienza si celebra. Dopo il consueto appello del giudice D’Angelo, la procura prende parola esprimendo parere favorevole per la costituzione degli enti e di tutte le associazioni che ne hanno fatto richiesta. Le difese degli imputati si oppongono fortemente perché le associazioni e i garanti non avrebbero la legittimazione per essere parte del processo. Altri difensori eccepiscono difetti di forma dell’atto di costituzione di singoli detenuti.
Alcuni avvocati si sono opposti anche alla costituzione del ministero della giustizia e dai loro interventi si è intravista parte della strategia difensiva. In particolare, il ministero si troverebbe in una posizione contraddittoria se entrasse nel processo come parte civile perché risulterebbe contemporaneamente coinvolto, attraverso i propri quadri dirigenziali, come responsabile (e fautore) delle violenze accadute.
Tra gli schieramenti processuali stanno emergendo quindi, già in questa fase preliminare, due forze opposte: da una parte, i dirigenti dell’amministrazione (non sappiamo se questo processo riuscirà a delineare un coinvolgimento più ampio delle gerarchie amministrative) e dall’altra il braccio esecutore rappresentato dal personale in divisa. I primi vorrebbero dimostrare che in quel frangente le bestie feroci erano soltanto i poliziotti. Sul versante opposto della stessa barricata ci sono le divise, le quali, invece, hanno l’intenzione di chiarire e di provare che gli eventi del 6 aprile 2020 e dei giorni seguenti sono stati il frutto degli ordini e del disordine creati e voluti dall’alto. Inoltre, in una posizione estremamente delicata, ci sono i detenuti che hanno subito le violenze e che dovranno muoversi tra gli spazi processuali per far emergere quanto accaduto nella Settimana Santa. Molti tra questi sono ancora in carcere e troppi non hanno chiesto di costituirsi nel processo per timore di subire ritorsioni. La prossima udienza è prevista per il 25 gennaio.
In questi giorni i difensori della famiglia di Hakimi sono riusciti a mettersi in contatto con i propri assistiti che vivono nella periferia di Annaba (Algeria). La conversazione è stata difficile perché la connessione con il telefono non era stabile e per i difensori non è stato semplice spiegare cosa sta accadendo in Italia. La madre di Hakimi ha ricordato gli ultimi contatti con il figlio, avvenuti poco prima che venisse portato a Santa Maria Capua Vetere. Quasi un anno di silenzio, poi un’unica telefonata la avvertì che il figlio era morto. L’interlocutore non aggiunse altro. Alcune briciole della storia della morte di Hakimi la leggeranno sui giornali algerini. La madre del ragazzo avrebbe voluto parlare ancora con i legali ma la voce le tremava. È determinata, vuole capire cosa è successo e in questo momento sembra essere la più lucida della famiglia. Assordante il silenzio del padre. (napolimonitor)