A inizio aprile i candidati al ruolo di sindaco hanno risposto a una domanda del principale giornale cittadino: “Come pensate di affrontare, gestire, risolvere l’occupazione dell’ex-Moi?”. Tre anni fa, presso la vecchia area del mercato ortofrutticolo, quattro palazzine furono occupate dai rifugiati provenienti dalla Libia, donne e uomini fuggiti dal conflitto del 2011 e rimasti senza una dimora. Gli edifici furono costruiti durante i Giochi Olimpici, abbandonati alla fine degli spettacoli. Oggi vi abitano più di mille migranti provenienti da diversi paesi africani. Le risposte dei principali candidati, nonostante le sfumature di senso, sono state analoghe: è necessario redigere un censimento, trovare una sistemazione adeguata agli attuali abitanti, riqualificare le palazzine. Un’analisi di queste proposte consente di allargare lo sguardo sulle contraddizioni della città.
Perché in tre anni non è mai stato redatto un censimento? Forse la domanda andrebbe posta in questi termini: quali soggetti censire? Gli abitanti dell’ex-Moi sono esseri umani in transizione. Viaggiano per il paese seguendo le stagioni della raccolta, si spostano se trovano un lavoro un poco più stabile, altri giungono e prendono il loro posto, qualcuno ritorna dopo aver tentato la fortuna altrove. Un censimento degli abitanti è possibile qualora vi sia una relazione stabile tra popolazione e territorio. Ma qualcosa di diverso sta avvenendo negli ultimi decenni: gli uomini sono sempre meno stanziali e i fenomeni migratori non sono semplici spostamenti da un punto all’altro di una mappa. L’ossessione degli aspiranti governanti – archiviare il nome e il cognome, legare l’identità di ciascuno a un luogo fisso – è il sintomo di una incomprensione, un segnale dell’obsolescenza dei tradizionali strumenti istituzionali. Due anni fa gli abitanti hanno lottato e hanno ottenuto alcuni diritti di base e il riconoscimento della residenza. Quest’ultima è stata concessa in via della Casa Comunale 3: un indirizzo inesistente, una strada immaginaria, perché il comune non poteva riconoscere un’occupazione “illegale”. Gli amministratori non dispongono di codici validi a interpretare la realtà circostante, così ricorrono a un paradosso per adattare rigidi schemi a un sistema di movimenti caotici.
La città – post-industriale, impegnata nella promozione della cultura come spettacolo, orgogliosa per l’incremento dei visitatori – è uno spazio attraversato da flussi di uomini in spostamento. Lavoratori residenti per brevi periodi, giovani provenienti da fuori città che inseguono le promesse notturne della movida, turisti di passaggio calcano ogni giorno le vie di Torino. Inoltre la città accoglie gli studenti fuori sede di due atenei e centoquarantamila cittadini stranieri, un numero che è raddoppiato in dieci anni. Ho menzionato categorie di individui che non godono del diritto di voto per le elezioni comunali. Forse gli amministratori sono eletti secondo un concetto di territorio che è in via di sparizione. Per questo la promessa di censire i rifugiati suona rassicurante, ma nasconde al suo interno la traccia di una inadeguatezza.
Torno alle dichiarazioni dei candidati. È interessante notare come le nuove, ipotetiche, abitazioni da offrire ai rifugiati non coincidano con le palazzine da riqualificare. Gli edifici vanno “svuotati”, rimessi a nuovo e affidati ad agenzie di “housing sociale” che accolgano “studenti” e “giovani”. Le palazzine oggi sono fatiscenti, esito di speculazioni immobiliari poco attente alla tenuta strutturale e alla qualità dei materiali: una ristrutturazione sarebbe necessaria per offrire condizioni di vita dignitose agli abitanti attuali. Ma i candidati sanno bene che ogni riqualificazione è possibile grazie all’intervento di finanziatori privati. E questi ultimi sono disposti a investire solo se prevedono di ottenere un profitto dalla valorizzazione immobiliare: le giovani famiglie attratte dall’housing sociale possono permettersi un affitto superiore a quello di un migrante dall’impiego saltuario. Dunque l’amministrazione metropolitana accompagna e agevola la libera iniziativa delle imprese immobiliari. Al momento, tuttavia, progetti abitativi popolari non si intravedono all’orizzonte, e uno sgombero avrebbe conseguenze sociali che nessun sindaco desidera scatenare. Questa tensione tra desiderio di riqualificazione e impossibilità di “svuotamento” mantiene la situazione in stallo: nel congelamento le condizioni delle palazzine peggiorano giorno dopo giorno, e un luogo di transizioni è lentamente sigillato in ghetto.
Mi soffermo su questo legame tra flussi di persone e processi di marginalizzazione. Esiste una tensione complessa tra il movimento degli uomini e il tentativo di controllarli, delimitarli entro un confine. L’esito complessivo delle politiche urbane mi pare tenda a ridurre la mescolanza, le possibilità di incontro. Penso al mercato delle pulci della domenica, là dove migranti e alcuni italiani si scambiano gli oggetti ritrovati. Un tempo si teneva a Porta Palazzo, in pieno centro, a ridosso dei quartieri più ricchi. Poi è stato spostato a nord, oltre il fiume, e infine è stato relegato in un’area ancora più marginale e deserta, in fondo a via Bologna. Nelle aree sgomberate la riqualificazione è in marcia. Anche a Borgo Dora, poco lontano da Porta Palazzo, i più poveri – e spesso cittadini stranieri – dovranno lentamente abbandonare il quartiere a causa di speculazioni in via di compimento. E in questi giorni – sono così lontano da Torino – leggo dello sgombero di una occupazione abitativa nell’area nord, a Falchera. Sognano una città omogenea dove s’attutisce il rumore degli incontri.
Se le istituzioni s’impegnano ad attirare investimenti, agevolano i profitti immobiliari e tendono a limitare gli scambi, le turbolenze e i conflitti, allora mi auguro che altre forze sociali – comitati, collettivi, gruppi informali, lavoratori – si assumano la responsabilità di vivere la città, comprendere i suoi movimenti, immaginare interventi locali. Non ho alcuna speranza in una amministrazione cittadina, ma avanzo pochi auspici: che sia data agibilità politica e sia assicurata piena autonomia a chiunque attraversi la città; che vi sia spazio anche per chi non aderisce a ristretti gruppi di conoscenze; che sia assicurata libertà di dissenso, per quanto aspro possa essere.
Rileggo l’ultimo capoverso, sembra risuonare di slogan già sentiti: è necessaria una politica dal basso, un attivismo dei cittadini, magari la cura di beni comuni grazie a processi di partecipazione. Ho la vaga sensazione che siano parole vuote, croste di senso senza linfa. A Torino esiste un laboratorio di “partecipazione dal basso”, ed è la Cavallerizza. Un tempo maneggio reale, la Cavallerizza per anni ha accolto un palco teatrale che afferiva al circuito dello stabile. Poi il teatro ha chiuso e l’amministrazione comunale ha iniziato a dialogare con investitori disposti a convertire le struttura in residence di lusso. Quasi due anni fa militanti, studenti e lavoratori dello spettacolo hanno occupato l’edificio e vi hanno organizzato spettacoli, dibattiti, proiezioni. L’occupazione ha avuto il merito di denunciare il processo di valorizzazione immobiliare incentivato dal comune, ha toccato un nervo scoperto. Tuttavia la Cavallerizza – almeno così mi pare – non ha coinvolto una cittadinanza plurale e variegata, ma soltanto noi laureati, studenti, professori, élite colte, movimentisti in diaspora. È rimasto un luogo ancorato al centro senza contaminazioni metropolitane.
Voglio dire che anche noi – noi chi? aspiranti politici o intellettuali, convinti militanti, attivisti in dispersione? – riproduciamo confini e separazioni, e contribuiamo a frammentare la città in mondi esclusivi. Ho l’impressione che il primo collante politico spesso sia l’identità di gruppo: sodalizi interni si stringono e si giustificano grazie alle contrapposizioni con altri collettivi, laboratori politici o centri sociali. Siamo sospesi in bolle opache senza comunicazione verso il fuori; la politica diviene affare di tribù e i patti si stringono con pacche sulle spalle. A volte i portavoce di fazioni diverse s’accordano sorbendo caffè accomodati a tavolini del centro. Io appartengo a queste contraddizioni: le mie parole sono confinate in cerchie ristrette, incapaci di girare libere per incontri imprevisti. Allora intravedo con più chiarezza alcune urgenze: che si frantumino, o almeno s’indeboliscano, le barriere che ci isolano; che le identità siano messe in discussione, e radicalmente; che nuove lingue nascano, abili ad attraversare i quartieri e favorire mescolamenti impensati. E questa ricerca, forse, può essere tentata senza badare troppo a chi sarà l’eletto di Palazzo di città. (francesco migliaccio)
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