Per chi è abituato ad assistere a una mostra in uno spazio espositivo neutro come quello di una galleria o di un museo, con le opere solitamente disposte sulle pareti e il senso spesso suggerito in maniera didascalica, Erased, la mostra fotografica di Eduardo Castaldo, potrebbe suscitare un felice stupore o non essere di facile lettura.
Al di là del giudizio sulla qualità delle opere, riconosciuta dalla vittoria del World Press Photo e dalla costante pubblicazione dei propri lavori sulle maggiori riviste nazionali e internazionali, la mostra vuole provare a cancellare molti significati che si associano a certi eventi, luoghi e mestieri. Già la scelta del luogo, una splendida casa al primo piano di un antico palazzo in via dei Tribunali, sembra voler superare quel distacco tra le opere, l’autore e il pubblico. Un’apertura del privato, delle sue sicurezze, all’imprevedibilità del fuori. Una messa in comune di uno spazio intimo all’interazione dei visitatori. Erased produce una decostruzione del senso domestico e di quello espositivo, e insieme del significante foto/media, restituendo una complessità attraverso la ricombinazione dei significati che investono la dimensione dei corpi in transito per le stanze.
Oltre alla collocazione di alcune foto come se fossero ricordi oppure oggetti d’arredo, con pesanti cornici retrò argentate o dorate, al di là delle fanatiche famiglie di ebrei ortodossi messe in soggiorno o gli scatti dal set del film Reality nella cantina sotterranea, quello che più colpisce è una stanza in particolare. Qui l’allestimento sembra esprimere insieme il tentativo di allontanamento dell’autore dalla propria opera e la denuncia di un meccanismo dell’industria giornalistica spesso perverso, sicuramente terribile: il dispositivo della notiziabilità, che stabilisce la scelta di alcuni fatti piuttosto che altri o la sovraesposizione mediatica per certi eventi in un certo periodo e poi la loro scomparsa improvvisa dall’orizzonte delle notizie.
In questa stanza sono esposte le foto simbolo della rivoluzione egiziana che qualche anno fa ha deposto il generale Mubarak. Sono gli scatti che hanno fatto il giro del mondo, le immagini di copertina delle maggiori riviste globali. Foto esposte per modo di dire. In realtà tutte le foto, stampate su grandi pannelli di legno o metallo, sono messe a terra alla rinfusa, appoggiate alle pareti, una dietro l’altra, capovolte, rovesciate o addirittura occultate con della plastica opaca. Le urla, i fronteggiamenti con la polizia, gli assembramenti nelle strade, le scritte sui muri, la comune di piazza Tahrir, la gioia e la rabbia rivoluzionaria sono frustrate, confuse sul pavimento. Appesa al muro c’è una sola immagine, quella che immortala una mano mentre disegna il volto di un generale.
Quei generali che di li a poco sarebbero tornati al potere soffocando nel sangue il desiderio di libertà di un popolo. Come le stragi di centinaia di giovani ultras del Cairo, assassinati dentro e fuori lo stadio. Gli stessi ultras che erano in prima linea a difesa di piazza Tahrir, così come ritratti nell’altra unica foto davvero esposta nella stanza, poggiata su di un cavalletto. Curiosamente una didascalia in cima invita i visitatori a segnare sulla foto con un pennarello, un puntino nero se la notizia della strage fosse giunta fino a noi, un puntino rosso se no. Inutile contare i puntini rossi.
Con questa mostra, sembra si cerchi di cancellare, attraverso l’esibizione della sua costruzione, quella strategia di simbolizzazione del reale con la quale giocano i media ma che necessariamente produce distorsioni e parzialità. L’immagine della violenza di un manifestante nell’atto di lanciare una pietra, perderà così tutta la sua forza simbolica se un’altra foto mostrerà la folla di giornalisti con i teleobiettivi puntati come cannoni. Così, attraverso la performatività della mostra Erased, l’autore sembra voglia allontanarsi dalla costrizione dell’impacchettamento mediatico del mestiere di fotoreporter e prendersi la sua rivincita etica. (giuseppe orlandini)