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31 Luglio 2015

Fare editoria a Napoli. Una strada in salita

Luca Rossomando
(archivio disegni napolimonitor)

da: Repubblica Napoli del 29 luglio

Risalgono a qualche settimana fa le inaugurazioni di due punti lettura in città, uno a Forcella nel centro polifunzionale aperto dal comune nell’ex Supercinema, l’altro voluto dall’associazione di pediatri “Nati per leggere” nel reparto di audiologia del secondo policlinico, che consentirà ai piccoli pazienti ipoacusici di beneficiare di un percorso di lettura ad alta voce. Sono numerose e molto varie le iniziative legate ai libri e alla lettura che gli operatori culturali pubblici e privati hanno proposto negli ultimi anni. Solo per citarne alcune, si va da L’altro libro, fiera dell’editoria indipendente, a L’altra galassia, che ha preso, in formato ridotto, il testimone di Galassia Gutenberg, storica fiera degli anni Novanta. La Fondazione Premio Napoli da parte sua ha avviato un progetto biennale che coinvolge decine di scuole superiori, dal titolo “Napoli legge Ariosto”, che prevede la lettura integrale dei quarantasei canti dell’Orlando Furioso, poema precursore della serialità che tanto appassiona gli adolescenti di oggi. Lo scorso maggio le scuole hanno presentato il loro lavoro in tre castelli della città: Sant’Elmo, Castel dell’Ovo e Castel Nuovo. Ci sono poi gli autunnali Incontri di lettura dell’associazione A Voce Alta, e sempre per le scuole il concorso “La pagina che non c’era”, che organizza anche un festival in cui gli studenti provenienti da tutta Italia incontrano gli scrittori durante seminari, laboratori e dibattiti.

C’è però un ambito in cui questa vivace frammentazione, questo attivismo diffuso e capace di coinvolgere lettori diversi per età, gusti ed esigenze, trova un limite e si rivela piuttosto una debolezza che un punto di forza. Parliamo naturalmente dell’industria editoriale, che pure esprime in città un panorama variegato, ma costituito in gran parte da esperienze di piccola scala e di portata locale, alle quali manca appunto il carattere “industriale”. E nella terza città d’Italia, la principale del Mezzogiorno, la mancanza di una casa editrice che possa competere, se non per capacità economiche, almeno per ampiezza di diffusione e solidità di progetto con gli omologhi nazionali, si fa sentire non poco. In un libro di venti anni fa, Le lingue di Napoli, edito da Cronopio, Iaia Caputo tracciava il panorama dell’editoria napoletana di allora mettendone in luce l’incapacità di “dotarsi strutturalmente e stabilmente di uomini e mezzi”, per fare il salto verso l’industria o almeno per trasformarsi in imprese artigianali “capaci di essere poveramente e fertilmente alternative”.

A distanza di tanti anni si può affermare, da un lato, che nessuno abbia più tentato un tipo di riflessione di quel genere: complessiva, approfondita, critica; dall’altro, che nel tempo trascorso da allora un intero giro di giostra sia stato compiuto per tornare più o meno al punto di partenza. Il tentativo più prossimo a una casa editrice di respiro nazionale, con un catalogo capace di attirare scrittori italiani contemporanei e giovani talenti locali, aperto a più generi, anche fuori dai confini nazionali, è stato effettuato dall’Ancora del Mediterraneo/Cargo. Ma anche di questa avventura ormai si deve parlare al passato. Le edizioni Cronopio, che hanno compiuto venticinque anni di attività, restano un esempio di tenacia e coerenza progettuale; piccole sigle combattive nate in questi anni, come Ad Est dell’Equatore o la Marotta&Cafiero rigenerata da un gruppo di giovani di Scampia, costituiscono piacevoli novità. E altre si potrebbero citare, perché buoni libri affiorano periodicamente qua e là, dalle inchieste giornalistiche fino ai saggi accademici non del tutto autoreferenziali, ma è evidente che manca un punto di coagulo, un luogo non solo fisico che consenta di valorizzare gli autori e di mettere ordine in una produzione spesso episodica; un luogo capace di veicolare i libri in modi non paludati e ben oltre i confini della città; dove i giovani possano crescere con lentezza, confrontandosi con i coetanei e con i maestri, senza l’urgenza di involarsi verso lidi più accoglienti; dove anche la ricerca accademica sia obbligata a scendere dall’empireo degli addetti ai lavori per confrontarsi con il linguaggio e il dibattito della città reale; dove le diverse professionalità legate al lavoro editoriale possano maturare ed essere riconosciute come meritano. Tutto questo oggi non esiste, come non esisteva venti anni fa, ed è questa cronica mancanza una sorta di lato oscuro, lo spettro che si aggira per la città quando si parla di libri. (luca rossomando)

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