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26 Ottobre 2016

Gioia Tauro, il fallimento della pianificazione e la forza dei portuali

Monitor agenzia per il lavoro, antonio testi, cooperative, elisabetta della corte, gioia tauro, graziano delrio, logistica, medcenter, porto, portuali, roma

(archivio disegni napolimonitor)

(archivio disegni napolimonitor)

da: Contropiano

È trapelato poco dall’incontro tenutosi il 19 ottobre al ministero dei trasporti a Roma, sulla spinosa vicenda dei quattrocentoquarantadue portuali in esubero al porto di Gioia Tauro. Vicenda che aveva innescato uno sciopero selvaggio di due giorni, il 12 e il 13 ottobre, con il blocco del porto di transhipment gestito da Medcenter-contship, colosso italo-tedesco della logistica, da oltre venti anni alla guida dello scalo della piana gioiese. A partire dallo sciopero l’urgenza di convocare le parti interessate e riaprire la trattativa sul numero degli esuberi e definire il percorso e la sostenibilità dell’Agenzia per il lavoro che dovrebbe occuparsi della ricollocazione dei portuali. L’incontro si è concluso con un nulla di fatto sulla riduzione degli esuberi e il reintegro di parte degli operai; mentre si è arrivati a stimare in quarantacinque milioni di euro, da spalmare su tre anni, la cifra necessaria all’Agenzia del lavoro che dovrebbe far ritornare al lavoro i portuali da cinque anni in cassa integrazione.

A Roma non tutto è andato per il verso giusto, l’incontro, infatti, stando alla nota diramata dal sindacato confederale unitario, è stato segnato da momenti di tensione, tra i tecnici del ministro dei trasporti Delrio e Antonio Testi, il commissario speciale recentemente nominato e rappresentante gli interessi Medcenter. Proviamo qui di seguito a ricostruire una parte di questa complessa vicenda che ha come sfondo la crisi globale e ricadute significative sulla vita di migliaia di portuali.

Su 1290 portuali, quelli in esubero, cioè quelli che non sono più utili agli interessi della Mct, la società che gestisce il porto di Gioia Tauro, sono 442: per lo più lavoratori del piazzale, quasi un terzo della forza lavoro complessiva. Oltre a questi operai, che dipendono direttamente dalla Mct-contship, una parte consistente del lavoro necessario per movimentare i container è stata appaltata a cooperative esterne, con ovvi vantaggi per Mct in termini di riduzione dei costi fissi. In tutto: quattro ditte di rizzaggio, centosessanta operai; una ditta di tramacco, quaranta operai; una ditta refe, venti operai; quattro ditte che si occupano di manutenzione mezzi con circa centosessanta operai.

Ma cerchiamo di capire come mai si è arrivati a un terzo dei lavoratori in esubero, di cui il cinquanta per cento operativo sul piazzale. Come spiega un operaio, questo non dipende dalle innovazioni tecnologiche, così come è avvenuto in altri porti del Nord Europa, ma piuttosto dalla crisi e dalle scelte fatte da Mct per risolvere il problema del rifiuto del lavoro di una parte dei portuali segnati da anni di turni massacranti: «Nessuna tecnologia. Gli esuberi derivano dal 2008 con perdita delle linee Maersk e Grande Alliance, da quel momento in poi siamo passati da 3,6 a 2,2 milioni di TEU, poi c’è stata la “ripresa” e siamo a 2,9/3 milioni di TEU, utilizzando di fatto il 60% di banchina e piazzale in concessione. Sempre con l’abbandono delle linee, i container su ferro sono spariti, siamo passati da 3600 coppie di treni l’anno a zero treni. Altro dato importante da conoscere: nel 2007/2008 eravamo 670 operatori di piazzale, con un assenteismo (impiegati compresi) del quattordici per cento (malattia, congedi parentali, permessi elettorali, permessi studio, infortunio, permessi sindacali, part time). Per gestire i picchi di lavoro e coprire i vuoti generati da questa situazione, l’azienda ha assunto (a giro) circa 300 operai – con contratti che andavano da una settimana fino a tre mesi – che con la crisi del 2008 non sono più stati richiamati. Nel 2009/10, circa 240 su 300 hanno fatto vertenza in tribunale per essere riassunti, perché l’azienda aveva abusato di questo tipo di contratti; nel 2011 il giudice dà ragione a questi ragazzi, condannando l’azienda a riassumere chi ha fatto ricorso, riconoscendo anzianità dal primo contratto e pari dignità. L’azienda perdendo le prime cause ha deciso per la conciliazione. Cosa strana (ma non troppo), non tutti gli operai avevano diritto a essere riassunti, però l’azienda ha deciso di non fare ricorso, passando così da 670 a 950 operai di piazzale. Ecco perché c’è l’esubero. Quindi, chi ha lucrato su questi contratti? Solo l’azienda? Anche il sindacato? Di sicuro, questi ragazzi non hanno colpa». D’altra parte non è la prima volta che la Mct fa ricorso alla cassa integrazione: negli anni passati vi sono state minacce di tagli del personale, poi rientrate, con non pochi benefici economici e sgravi per l’azienda e per il capitale investito nell’area portuale.

Ma ritorniamo all’ultima vicenda. Già nei primi giorni di luglio c’era stato un incontro a Roma, nella sede del consiglio dei ministri, tra sindacati, azienda, istituzioni e il ministro delle infrastrutture e dei trasporti Delrio. Le questioni in gioco: garanzie per i lavoratori e il rilancio dello scalo di Gioia Tauro. In pellegrinaggio a Roma per incontrare il ministro e i sottosegretari Claudio De Vincenti e Teresa Bellanova erano giunti il presidente della regione Oliverio, l’assessore regionale a molti sistemi (al sistema della logistica, sistema portuale e sistema Gioia Tauro) Francesco Russo, e poi Cecilia Battistello, presidente di Mct-contship, e i segretari regionali e nazionali dell’Ugl mare e porti, Ornella Cuzzupi, Francesco Cozzucoli e Pasquale Mennella. Quell’incontrò si chiuse con la promessa di siglare un accordo per la nascita di un’agenzia per il lavoro mirata alla riqualificazione dei portuali in esubero e la cassa integrazione per un anno a partire dal 1 agosto. Non mancarono le dichiarazioni di rito cariche di speranza. Per esempio, Delrio dopo l’incontro del 6 luglio in un comunicato stampa affermava: «Sì è compiuto un passo avanti importante oggi per Gioia Tauro a palazzo Chigi, con l’istituzione dell’Agenzia per il lavoro e con l’accordo di programma per il rilancio del porto, che consentono la tutela dei lavoratori e una prospettiva di sviluppo». L’idea era quella che ridando una “mission produttiva” al porto di Gioia Tauro se ne garantiva il rilancio e quindi l’occupazione. (continua a leggere / elisabetta della corte)

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