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27 Marzo 2018

Gli spazi della follia. Un padiglione occupato nel vecchio manicomio di Aversa

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(archivio disegni napollimonitor)
(archivio disegni napollimonitor)

«La cosa più importante da dire è che è arrivato il momento per la popolazione di rimboccarsi le maniche, cominciamo una discussione su come riappropriarci degli spazi e dei luoghi che le istituzioni ci hanno sottratto e hanno devastato». Così mi dice Alessandra del comitato “La Maddalena che vorrei” mentre si appresta a ripulire e sistemare insieme ai suoi compagni il padiglione Leonardo Bianchi del vecchio manicomio civile di Aversa. Se ne sono “riappropriati” martedì scorso e sono alle prese con il lavoro improbo di ripulire un luogo abbandonato da decenni e di grande valore storico. Quello di Aversa, infatti, è stato il primo manicomio d’Italia, voluto da Gioacchino Murat nel 1813. La Real Casa dei Matti, poi rinominata Ospedale psichiatrico Santa Maria Maddalena, nata originariamente da un convento (la Maddalena appunto), si è nel corso di quasi due secoli estesa sino a raggiungere una superficie di 170 mila quadrati. Poi, nel 1998, dopo venti anni dall’approvazione della legge Basaglia, finalmente la chiusura definitiva.

Nel corso di due secoli, il manicomio civile di Aversa è stato il luogo di tutte le sperimentazioni psichiatriche, sia quelle “terapeutiche” che quelle architettoniche. Qui si sono sperimentati i letti di contenzione, l’elettrourtoterapia, il coma insulinico, l’ergoterapia, i primi neurolettici negli anni Cinquanta; qui i padiglioni – a mo’ di villaggio della follia – sono organizzati per quelle che vengono definite “omogenee classi di demenza”: agitati, sudici, semi-tranquilli. Migliaia di donne e uomini, senza speranza di cura o libertà, riempiono le mura di questo manicomio, tanto da costringere a una costante ricerca di spazi e nuove celle: tra i tanti progetti qui si sperimenta la realizzazione di un “manicomio per pazzi poveri”.

Insomma, un patrimonio storico inestimabile che oggi versa in condizioni di abbandono. Il corpo centrale del complesso in condizioni fatiscenti, la chiesa storica saccheggiata e pericolante, il cortile del chiostro sottratto alla vegetazione selvatica solo per lo sforzo dei volontari. Un abbandono che dimostra non solo la tipica inerzia delle istituzioni nel riprogettare gli spazi urbani (mentre su spinta privata i piani regolatori possono essere modificati in poco tempo), ma anche l’incapacità di fare i conti con la memoria della follia e della violenza delle istituzioni manicomiali. Perché un recupero vero di questi spazi sarebbe possibile solo preservando la memoria della segregazione della miseria e della povertà che hanno rappresentato. E invece, proprio nella regione che ha ospitato ben tre manicomi civili e tre giudiziari, a venti anni dalla chiusura reale dei manicomi civili nulla si muove, se non per iniziative di attivisti e militanti come quella che ha trasformato l’ex Ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli.

Il comitato La Maddalena che vorrei è nato due anni fa con associazioni e realtà del territorio dell’agro-aversano, ci racconta Alessandra. Tentativi di interlocuzione con la Asl – proprietaria di quasi tutto il complesso a eccezione proprio del padiglione Bianchi, di proprietà comunale – per organizzare iniziative ed eventi, in attesa di progressi che non arrivano. Arrivano invece degli incendi sospetti, già quattro dall’inizio dell’anno e il saccheggio della ex falegnameria (uno degli spazi che da tre anni gli attivisti di Iskra stanno recuperando per farne uno spazio aperto e vivibile). Se ci sia una strategia dietro tutto questo, difficile a dirsi, certo che questo spazio può ispirare gli istinti di molti speculatori in un terra in cui il cemento la fa da padrone. I cancelli messi a protezione da parte della Asl non sono stati sufficienti a impedire che si verificasse l’ultimo incendio, né sono per il comitato il segnale di una reale messa in sicurezza della zona. Dal comitato chiedono vincoli che impediscano abusi, e progetti di rilancio concreti. Sulla carta già nel 2013 è stato approvato un protocollo d’intesa tra Comune, Asl e la facoltà di Ingegneria della Seconda Università per uno studio sul recupero dell’area, ma non si registrano passi avanti. Come nella migliore tradizione, mentre il medico studia il paziente muore. (dario stefano dell’aquila)

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