Sono seduta al bar sotto al palazzo dove abita Mary. Si avvicina un uomo alto e smilzo, probabilmente un poliziotto in borghese. Davanti a noi lungo il marciapiede una fila infinita di macchine dei carabinieri e della polizia sotto il sole cocente estivo di corso Giulio Cesare, periferia nord di Torino. Mentre sorseggio un succo di frutta, Mary è alle prese con i bambini. Sono molto piccoli, si lamentano, piangono, esprimono un disagio che mi sembra essere comune. «Scusateci – ci dice l’uomo – potete tornare a casa, tra poco abbiamo finito». Lo guardo con distratta curiosità e gli chiedo chi sia. Ci intendiamo subito: è chiaro a tutti che la domanda si riferisce al ruolo che ricopre nella parata di forze dell’ordine che ci circonda. Commissario di polizia. Colgo l’occasione per fargli alcune domande. È dall’inizio di questa lunga mattinata, d’altronde, che il mio, di ruolo, sembra essere proprio questo. In un attimo l’espressione bonaria sul viso del commissario diventa una smorfia di confusione, disgusto e infine elusività. Presto scompare dal nostro campo visivo.
Quanti agenti sono presenti oggi, in questa mattinata estiva in corso Giulio Cesare, fuori dalla palazzina di Mary? Entrano ed escono, aspettano in piedi al bar oppure sostano davanti alle loro macchine di colori e forme diverse. Ci sono proprio tutti: polizia di stato, guardia di finanza, carabinieri, unità cinofile. E insieme a loro una folla variegata di tecnici: Italgas, Iren, funzionari del comune e altri che non saprei riconoscere. Tutti entrano ed escono da casa di Mary, di Ibrahim, di Ahmed. È proprio Ibrahim che questa mattina presto mi ha svegliata con la sua chiamata, dopo una notte insonne per il caldo: «È venuta la polizia, è venuto il sindaco. Stanno controllando tutti, chiedono il contratto, chiedono i documenti. Tutto».
Aspettavamo questo momento, già annunciato quando a fine giugno il sindaco Lo Russo aveva scelto proprio la nostra palazzina come passerella elettorale. I discorsi istituzionali, riportati dai giornali, li conosciamo già: più sicurezza e lotta allo spaccio. I ragazzi senegalesi che ogni sera stanno sul marciapiede davanti al portone perennemente aperto, fracassato dalle operazioni di polizia, diventano nell’immaginario temibili pusher, e l’androne del palazzo, lasciato all’incuria dal palazzinaro, una pericolosa piazza di spaccio. Sono oggetto di morbosa attenzione anche lo stato della palazzina, che cade a pezzi, e quelle che vengono definite le pessime “condizioni igienico-sanitarie” al suo interno. Riguardo agli inquilini il tono degli articoli lascia intendere, allo stesso tempo e senza alcuna apparente contraddizione: “Poveri loro!” e “Forse se la sono cercata!”.
Mentre respiro l’aria avvelenata dal traffico, avvolta dal calore del cemento di Barriera di Milano, in quella che secondo i giornali e le istituzioni rappresenta la quintessenza della periferia, ho il primo sentore di come questo potente universo simbolico (il degrado, le periferie, la sicurezza) possa in qualsiasi momento esplodere, come un temporale estivo, e riversarsi sopra i propri bersagli prediletti in tutta la sua violenza.
UN’INVASIONE MATTUTINA
L’universo simbolico si è materializzato oggi, alle sette di mattina, con le sembianze di un poliziotto che bussa alla porta degli inquilini della palazzina, alcuni dormienti, altri in procinto di andare a lavorare.
Toc, toc. Pausa. Bum, bum.
Appena arrivata, uno dei primi episodi che mi viene riportato è questo: al secondo piano hanno bussato ma nessuno rispondeva, allora la polizia ha buttato giù la porta. Più tardi ho potuto vedere con i miei occhi la lunga cicatrice che le percosse hanno lasciato sul metallo. Dai racconti frettolosi che mi vengono fatti provo a immaginare i dettagli dell’intimità della mattina violata dall’incursione della polizia. Mi viene in mente soltanto il rimbombare martellante dei pugni contro la porta in un’atmosfera per il resto grigia, atona, che lascia presagire la sventura incombente. Cerco di non lasciarmi andare a fantasie. Gli abitanti di corso Giulio Cesare hanno già in passato subito diversi controlli. Ormai sono abituati all’intrusione della polizia nelle loro vite, e nel bene e nel male hanno imparato a farvi fronte.
Arrivata alla palazzina, incontro una abitante del palazzo, con lei ci sono Mary e una piccola folla di bambini. Siamo davanti al bar sotto casa che abbiamo imparato ad apprezzare durante i lunghi picchetti antisfratto e che in questo momento sembra essere diventato il quartier generale della “retata”. Ci sediamo. La polizia – mi dicono – entra in casa delle persone e pretende di vedere qualsiasi documento che riguardi il palazzo e chi lo abita. Entrano e non vanno via finché non ottengono ciò che vogliono. Qualche carabiniere ha accennato al problema dello spaccio, e si vedono le unità cinofile addentrarsi nel palazzo con i cani. «Perché se volevano trovare gli spacciatori sono venuti la mattina, quando non c’è nessuno di loro?», si chiedono le donne. Oggi, e per la seconda volta, si è presentato il sindaco con al fianco la sua corte di fotografi e giornalisti, per poi sparire e rilasciare dichiarazioni di soddisfazione e compiacimento per l’operazione compiuta. Più volte Mary e gli altri inquilini hanno chiesto spiegazioni, ricevendo solo risposte vaghe: si tratterebbe di “normali” controlli. Da adesso in poi il mio obiettivo sarà, più o meno inconsciamente, dare senso al mio essere lì, donna bianca insieme a persone come Mary, Ahmed e Ibrahim, che per ragioni che nei primi tempi mi risultavano incomprensibili, hanno scelto di darmi la loro fiducia.
LA SOLIDARIETÀ CONTRO GLI SFRATTI
Sono passati mesi da quando le nostre visite in corso Giulio sono cominciate. Tutto è nato dalla notizia dello sfratto di Mary e della sua famiglia. In casa Mary non ha l’acqua calda, il boiler è rotto, e ci sono grosse infiltrazioni dal soffitto. Il bagno è esterno, vicino alle scale, esposto a un viavai costante e imprevedibile di persone perché il portone rimane sempre rotto. Sono molti gli abitanti della palazzina nella stessa situazione di Mary. L’edificio appartiene a Giorgio Molino, un nome che a Torino assume quasi i tratti della leggenda, per una lunga storia di sfruttamento che parte dalle prime emigrazioni dal Sud Italia per arrivare alle migrazioni globali di oggi. Molino è proprietario di migliaia di appartamenti, in condizioni fatiscenti, che affitta a stranieri privi di una migliore alternativa.
Dall’inizio delle nostre visite, dopo aver osservato il costante ricambio degli abitanti all’interno della palazzina, abbiamo cercato di capire come prevenire e affrontare i numerosi sfratti. Abbiamo parlato molto con le persone, imparando a conoscerci e contaminando i nostri linguaggi. Lo abbiamo fatto e lo facciamo, credo, attraverso quelli che, forse ingenuamente, chiamo “gesti nudi di solidarietà”, che si manifestano nell’essere presenti nella palazzina, insieme ai suoi abitanti, con l’intento di voler creare relazioni, ascoltando e interiorizzando il ritmo, il rumore e i silenzi che la attraversano. Gesti “nudi” perché hanno comportato per noi la necessità che molte parole, affascinanti ma logore, venissero spogliate dei loro significati consueti e fossero viste da una nuova angolazione. Grazie a questo processo di spogliamento, quando penso che qualcuno mi stia “dando” fiducia, non sento più alcuna paura né inadeguatezza. Adesso so che in realtà la fiducia che percepisco è una potenza collettiva che scorre tra noi, e che come tale non appartiene a nessuno. Anche se necessita di cura. Essere presenti, negli ultimi mesi, ha voluto anche dire per noi solidali occupare quegli spazi dove la polizia pensa di agire nell’ombra, facendo foto e video del loro operato e mettendone in discussione la legittimità, o anche soltanto testimoniando le loro azioni.
ATTEGGIAMENTI E PAROLE DI GIORNALISTI E POLIZIOTTI
Nel palazzo, intanto, la folla di divise sembra essersi diradata. Chiedo a una giovane poliziotta cosa stia succedendo: «Un normale controllo, stiamo verificando i documenti delle persone». Quando faccio notare la “non normalità” di ciò che sta accedendo, l’agente mi risponde: «Io non so dirle niente di più, chieda a un mio collega stellato». Provo a immaginare a quale grado o ruolo corrispondano le stelline nel misterioso mondo delle divise che in questo momento mi sfilano accanto. Esco di nuovo, strizzando gli occhi in cerca delle stelline: nessuna traccia, solo cupe divise blu. Demoralizzata, rivolgo a un tozzo uomo in borghese dalla polo verde la stessa domanda, ma questa volta la risposta è netta: «Stiamo facendo un controllo. Lei chi è? Abita qui? Abbiamo già dato tutte le spiegazioni alle persone del palazzo». Raccolgo le energie per rivolgermi al gruppo sconclusionato di poliziotti che già da un po’ sosta davanti al bar. «Stiamo facendo dei controlli!», risponde deciso uno di loro. Un altro, dall’aria brutale: «Ma lei chi è, una giornalista, perché le interessa? Stiamo facendo un controllo, non dobbiamo dire nulla». Mi volta le spalle ridendo, come a voler sottolineare la mia irrilevanza. Decido di avere l’ultima parola e chiedo, ormai rivolta a tutti quanti, quale sia la razionalità nell’entrare a casa di una donna sola con due bambini in cerca di droga. Un giovane poliziotto abbassa lo sguardo, in imbarazzo.
Ritorno al mio gruppo. Ormai è rimasta solo Mary con i bambini. Ahmed esce velocemente dal palazzo. Hanno appena finito di fargli i controlli. Mi stringe la mano sorridendo e si allontana, di fretta. Poco più tardi lo vedrò aggirarsi nei dintorni della palazzina, a debita distanza, con lo sguardo basso e un sacchetto della spesa in mano. Ha ricevuto lo sfratto, come tanti altri, senza alcun preavviso e senza potersi difendere, lui che aveva sempre pagato tutto, e insieme abbiamo resistito. La vista della sua testa china per quest’ultimo colpo crea rabbia e dolore.
Intanto nel dehors del bar si sono sedute l’una di fronte all’altra due persone, un uomo e una donna, intente a scrivere al computer. Mary mi dice che sono dei giornalisti. Sono loro che hanno seguito il sindaco all’interno della palazzina per documentarne le gesta. Ci sediamo vicino alla giornalista che poco prima aveva filmato e intervistato Mary. Più tardi, nei video fatti circolare dalla testata giornalistica, la vedrò intrufolarsi negli appartamenti delle persone appena svegliate, aggirandosi per le stanze con disinvoltura e facendo domande a bruciapelo sulle condizioni di abbandono dello stabile. La vedrò chiedere a un ragazzo, seduto con aria stanca sul proprio divano di casa: «E tu da dove vieni, come ti chiami?». Il risultato di questa sbrigativa inchiesta è quasi subito diventato un articolo dal titolo: «Il palazzo dello spaccio: qui dentro viviamo come cani».
Mi colpisce come la giornalista, invadendo la quotidianità degli abitanti, non mostri in alcun modo quel pudore che ci si aspetterebbe di fronte alla vulnerabilità di un altro essere umano. Penso alla violenza istituzionale come al tentativo di aprire una ferita, un “varco” (il portone spalancato distrutto dalle retate, la porta sfondata dalla polizia, i continui controlli, l’intrusione nelle case, la sovraesposizione mediatica…) che mira a rendere sempre più labili nelle persone colpite i confini tra esterno e interno, lasciandole esposte alle ingerenze del mondo anche in quelle sfere della vita che dovrebbero rimanere intime e inviolabili. La giornalista con un’espressione di distratta sorpresa risponde: «Ma come, stanno facendo un controllo, no? Mary l’abbiamo intervistata prima, lei lo sa! Giorgio Molino? Sì, lo conosciamo… Ma lo spaccio! L’ha detto anche lei – indicando Mary – che le persone qui non si sentono sicure, che hanno paura ad uscire di casa la sera. Se vuoi sapere qualcosa di più puoi leggere l’articolo che abbiamo scritto oggi…».
Mary è seduta accanto a noi, in tensione. In questi mesi ha ripreso con decisione in mano la sua vita, dopo essersi ritrovata da sola, due bambini e uno sfratto, a lottare per la casa, contro l’indifferenza dei servizi sociali e delle istituzioni. Non l’ho mai vista vacillare, cedere al gioco del potere che vuole i più marginali schierati l’uno contro l’altro in un conflitto perverso e inutile. Con lucidità, e con poche parole, è in grado di smascherare gli inganni e le ipocrisie dei falsi alleati. La voce della giornalista mi suona adesso grottesca, deformata, come quella di un ventriloquo.
LA VIOLENZA DEL “CENSIMENTO”
Nel frattempo, alla nostra destra, un po’ in disparte, si è formato un nuovo agglomerato di forze dell’ordine. Un esemplare in camicia azzurra, a mezze maniche, ha sulle spalle quelle che – finalmente! – sembrano delle stelline. Lo raggiungo di corsa dicendogli che stavo cercando proprio lui. «Certo, chieda pure. Stiamo facendo un controllo! Per essere più precisi, si tratta di un censimento. Cos’è un censimento? Un censimento è un controllo, un sopralluogo… Insomma, un censimento a trecentosessanta gradi, di tutto, dell’edificio e delle persone. Vede questi tecnici? Sono tecnici dell’Iren, del comune e non solo… Loro sono qui insieme ai miei colleghi per fare delle perizie e verificare le condizioni del palazzo. Le persone? Sì, bisogna sapere quante persone vivono dentro, controllare i documenti, i contratti… è una questione di sicurezza. No, non so darle altre informazioni, ho già parlato troppo! D’altronde, io sono qui solo di passaggio». Guardo per un attimo i suoi cinque o sei colleghi, suppongo anche loro “di passaggio”, in piedi con aria sfaccendata.
Questa nuova parola, “censimento”, ha in sé qualcosa di indefinito, un amalgama di astrazione e concretezza che eccita la mia immaginazione. Grazie a essa ho infatti elaborato una nuova teoria, quella del “censimento-leviatano”, che può finalmente aiutarmi a far luce su cosa sta succedendo. Il censimento-leviatano è un’entità misteriosa (nessuno sa infatti da dove venga, né cosa rappresenti) che in qualsiasi momento può farsi strada tra le persone e le cose avvolgendole nella morsa dei suoi tentacoli, per poi risalire, senza alcun preavviso, alla sua oscura origine. Ciò che lascia sono detriti, macerie ma anche confusione e interrogativi tra coloro che hanno sperimentato il suo stretto giogo. A quale scopo? – si chiedono.
Secondo alcuni il compito del censimento-leviatano è portare ordine dove prima regnavano caos e anarchia. Altri invece rinunciano a trovare un disegno e si adattano all’imprevedibilità della loro nuova esistenza, pronti a sentire di nuovo sulla propria pelle la vischiosa sostanza dei tentacoli. Una sola caratteristica del censimento-leviatano, però, è chiara a tutti: esso si cala su ogni cosa, senza distinzioni di sorta tra oggetti inanimati ed esseri umani, per esso un bambino è uguale a un giocattolo, che a sua volta è uguale a una madre che è uguale alla casa in cui dorme. Tutto viene avvolto dai tentacoli, al punto che esiste una terza interpretazione, sussurrata solo da pochi, per cui sarebbe proprio questo il suo fine: scomporre la realtà, disgregare ciò che prima era unito e unire ciò che per sua natura deve rimanere separato, distruggere senso e legami. Mi riscuoto per guardare in direzione della palazzina, immaginando che, anche adesso, la stretta tentacolare stia agendo sulle nostre menti e sui nostri corpi.
Entro. Sono all’ingresso, al piano terra, e davanti a me si trova un gruppo eterogeneo di tecnici e poliziotti in borghese. Conscia, dopo diverse sperimentazioni fallite, che l’approccio più efficace sia quello da “brava ragazza”, mi rivolgo a uno di loro. «Stiamo verificando le condizioni strutturali di tutto l’edificio, è per il bene degli abitanti. Controlliamo la presenza di diverse irregolarità, come allacci abusivi e bombole non conformi, ne abbiamo già identificate diverse. Ci saranno conseguenze per il proprietario? Faremo un’ordinanza nei suoi confronti in cui gli verrà intimato di mettere l’edificio a norma». La banalità delle parole d’ordine di un potere che si spaccia per “ordinaria amministrazione”, con le sue procedure e regole inderogabili, risveglia la mia percezione della violenza subita da Mary e dagli altri abitanti. Nessuno ha mai chiesto loro che cosa volessero, di cosa avessero bisogno. E adesso, dovrebbero anche accettare la narrazione dissociata che li dipinge allo stesso tempo come vittime e criminali, giocando su un’ambiguità di fondo volutamente mai chiarita: cosa, o chi è quell’elemento “irregolare”, lo “sporco” su cui tanto insistono gli articoli di giornale, che bisogna debellare?
Nessuno dei rappresentanti delle istituzioni con cui ho parlato oggi ha fatto accenno a Giorgio Molino, il proprietario di questa palazzina e di tante altre come questa, o alle conseguenze di un mercato immobiliare che esclude le persone non bianche, o all’assenza di un’edilizia popolare pubblica. L’influenza di questi fattori strutturali risulta invisibile, spazzata via in un attimo da azioni e discorsi che sembrano imporsi con la naturalezza dell’evidenza.
Torno al bar, dove la mattinata continua a scorrere pigramente. Le macchie blu, grigie e azzurre lentamente si diradano: per Mary è arrivato il momento di tornare al piccolo appartamento muffito che tanto ha disprezzato quanto difeso strenuamente. Un vociare sempre più acceso si propaga ora attraverso la rampa delle scale, insieme agli odori delle cucine di nuovo all’opera. È la vita usuale del palazzo che fa il suo ritorno, come se niente fosse accaduto.
Scopriamo che a una donna, al quarto piano, è stata staccata la luce, e che a Ibrahim, insieme a molti altri, hanno “sequestrato” la bombola del gas. “Stasera Ibrahim non mangia!” mi dice Mary, ridendo. Una signora anziana, rimasta anche lei senza bombola, è ancora fiduciosa: “Quando torneranno ci allacceranno il gas, hanno detto”. Sulle scale incontriamo Ahmed. Dovrà riparare la porta del ballatoio sfondata dalla polizia, ma il suo volto è di nuovo disteso. Saluto Mary e i bambini e mi incammino verso casa. Un uomo sale silenziosamente le scale, portando sopra le spalle una bombola del gas. (flavia tumminello)