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1 Aprile 2020

Il cinema di fantascienza di Adolfo Casarsa #1. C’era qualcuno, non c’era nessuno

casarsa, cinema, fantascienza, torino

Questa storia comincia un pomeriggio d’ottobre in piazza Derna, periferia settentrionale di Torino. Gaetano, storico venditore al mercato delle pulci, ci aveva dato appuntamento nel bar che s’affaccia sulla grande rotonda aggredita dal traffico. «Volete venire a vedere il mio magazzino? È pieno di roba, non so più che fare». Gaetano accumulava oggetti nel garage di uno scantinato umido e malsano. Nell’odore di carta rancida erano ammassate tazzine da tè, DVD pornografici, vestiti malmessi, pastorelli da presepe, tre tini per il vino. «In fondo ci stanno strati di oggetti che non raggiungo da dieci anni. Ma come faccio a buttare via tutto? Non ci riesco». Sotto una pila di vinili di Dalida trovammo una valigia blu con le rifiniture argentate, polverosa e sgualcita. «Là dentro ci sono pellicole cinematografiche». Ci siamo chinati curiosi, la valigia portava un’etichetta con un nome: Adolfo Casarsa. Dentro, oltre a tre rulli di pellicole, c’erano un raccoglitore con foto e articoli di giornale, una risma di fogli battuti a macchina e un quaderno scritto a mano. «Per dieci euro vi portate via tutto», disse Gaetano sempre nervoso. Così siamo venuti in possesso dei materiali preparatori per un film di fantascienza di Adolfo Casarsa, promessa del cinema negli anni Settanta. Scomparso prima di realizzare la sua opera, Casarsa ha lasciato qui nel mondo – ne siamo certi, ormai – soltanto questa valigia.

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Sul lenzuolo della nostra soffitta – alla casa sui tetti – abbiamo proiettato una sera il primo frammento del rullo II. Leggiamo dal diario di G. Borgese, assistente di regia: “Dice che il senso di paura e di isolamento deve provenire dall’atmosfera, non da immagini didascaliche. La paura si materializza nei sensi attraverso la sparizione dell’altro e con il riempimento aereo di suoni. Si sentono le voci, non si vedono le persone, disorientamento che percepiamo chiaro con i sensi. Dove sono tutti? Un uomo cammina in lontananza: dalla figura solitaria, il deserto attorno. Abbiamo montato i modelli di automobili dalle curve sinuose”. Dalle note di regia di Casarsa, foglio battuto a macchina numero tre: “Esempi di cinema atmosferico. Registrare suoni che si perdono nel vuoto”. Poco dopo: “Prima di realizzare un film bisogna ricostruire un universo: oggetti, paesaggi, linguaggi. Da questo deriva l’atmosfera”. Il suo universo – scenario di un film di fantascienza solo sognato – sono gli anni Venti del ventunesimo secolo, anni sconvolti da un’epidemia.

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La sceneggiatura – disordinata, rimaneggiata per lunghi tratti – lascia intravedere Lui e Lei, i protagonisti. Da un monologo di Lei: “Pensavo alle città. È come se non esistessero più, come se un incantesimo le avesse fatte sparire! Forse le città senza libertà di movimento e aggregazione non esistono. Privarci della città significa cancellarla. A cosa serve così? In giro è rimasto solo un organizzato ammasso di pietra, asfalto e cemento. E poi le case, sì, dove viviamo,  rispetto alla città non hanno più alcun senso”. Riconosciamo a margine – è la sua calligrafia – le note a matita di Casarsa: “Tutte le fiabe persiane iniziano con ‘yeki bud, yeki nabud‘. Che significa ‘c’era qualcuno, non c’era nessuno’. È il persiano per ‘c’era una volta’. ‘Yeki bud, yeki nabud’, condizione universale delle città – nel mio film”.

Borgese, assistente di regia, autore del diario ritrovato nella valigia: “Ha preteso che tutta piazza della Repubblica sia deserta, e in un giorno feriale! Ha parlato con le autorità, le ha convinte – il nostro immenso film. Ha scattato soltanto fotografie, non ha voluto girare. Vuole eseguire delle prove di immaginazione materiale. Nel nostro soggetto i mercati urbani, come tutti i luoghi pubblici, sono chiusi. Restano aperti i centri commerciali nelle periferie. Lui immagina coprifuochi diurni. Mentre scattava le foto fra i desolati banchi del mercato, si è voltato: «Metteremo cento comparse alle finestre, mentre gireremo la scena. Dovranno spostare la tendina e guardare la piazza». Non importa, dice, se l’inquadratura non coglie gli occhi sbircianti, perché gli sguardi si devono sentire”. Dalle note di regia: “La materia è malleabile agli sguardi. Sarà un deserto urbano inaridito da occhi sbarrati in percezione persistente”. (Note a cura dell’Assembramento di Ricerca Cinematografica)

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