Passa la primavera qui nella casa sui tetti dove il cielo si tinge d’arancio. Alle pareti abbiamo appeso gli appunti di Casarsa, le foto, le lettere. Dai fili stesi fra la cucina e la porta del bagno oscillano brandelli di sceneggiatura trattenuti da mollette ambrate. La valigia nera aperta sul tavolo ha accompagnato pranzi incoscienti con fave, vino e pancetta. Perché non ha concluso il film? Ci domandiamo prigionieri anche noi del suo gioco. Poi una notte lei ha detto: «Su, oltre l’abbaino passiamo e sediamoci sul tetto». Appoggiati alle tegole in un caldo silenzio abbiamo avvolto le ginocchia in un abbraccio. Lassù abbiamo intravisto le ombre lontane d’una civiltà sui tetti, i banchetti sotto le stelle, la città celeste di Casarsa: il sogno dell’altrove in libera illusione. Quella notte abbiamo trovato l’ultima lettera di Adolfo Casarsa, scritta da Napoli il maggio del 1978 e diretta all’amica in Polonia.
“Cara Barbara, nell’ultima lettera scrivi d’un cinema come montaggio di pensieri sparsi di chi non riesce a dormire. Oggi abbiamo realizzato le immagini della mia insonnia di maggio. Si vedono un decumano del centro e la vita dimessa di uomini che barcollano sotto il peso delle leggi di quarantena. Eppure un inno di speranza si leva. Lo sai anche tu: ogni speranza – per quanto illegittima – è luce materiale che cade su noi. L’occhio non regge e tenta di nascondersi giù, giù fra i basoli. Lo sguardo della macchina da presa sprofonda così bene che è impossibile andare avanti. A che porta? Credo sia l’ultima sequenza – tu mi comprenderai. Siamo prigionieri della lingua e dei pensieri nostri (per quanto ribelli) e stiamo al mondo come sulla scena d’un teatro di prosa che ci costringe a recitare la stessa parte come degli automi. Ripetiamo discorsi scoloriti, pensieri consunti e non riusciamo nemmeno a sfiorare la malinconia dei migliori pagliacci. Nelle ultime settimane ho tentato di sublimare il malessere e ho costruito un plastico della Napoli del futuro, scenario grandioso di un film naufragato. Puoi immaginare con quale perizia ossessiva abbia realizzato i palazzi di vetro e cristallo dell’avvenire. La linea dei grattacieli, immagino, seguirà quell’onda che il Vesuvio disegna nel cielo”.
“Sai bene, mia cara, che non ho certo un carattere arrendevole. Ho trascinato la storia d’amore fra Lui e Lei finché era possibile. Mesi fa ho compreso che ogni racconto è insulso perché semplifica o annulla i patimenti, i rivolgimenti e la rivalsa delle creature. Gli eventi del mondo sono così plurali e spaiati, e incomprensibili, che non possono essere tenuti insieme da alcun filo di senso. Allora un film non dovrebbe raccontare, ma documentare ogni aspetto di un mondo in dissoluzione. Come si comporteranno le piante rampicanti sui muri scrostati nella civiltà epidemica? Quali pensieri avranno le piantine di basilico su balconi carichi di tensione, quali i cinghiali che esplorano distese di cemento? Ho realizzato dei brevi documentari. In uno si vedono le ortiche crescere sopra tane di bisce e le camionette di un posto di blocco all’orizzonte. (Ho visto il futuro delle città ed era un groviglio di giungla e polizia). In un altro ho ripreso una lotta fra insetti: qui non vi è sceneggiatura, ma solo puri eventi di ragni che si contendono il territorio mentre un virus sconvolge i sonni degli umani”.
“Ora ti scrivo quel che più importa. Ricordi il libro XXI dell’Odissea? La gara dell’arco: chi tende l’arma di Ulisse e supera la prova, può sposare Penelope. I pretendenti non hanno la forza e sono sconcertati, ma Antínoo, il primo fra loro, parla così: «Oggi tra il popolo c’è la festa solenne / d’Apollo: e chi potrà tendere l’arco? Dunque tranquilli / tornate a sedere». Eppure il mendicante riesce nell’impresa, si sveste dei cenci ed è la fine dei pretendenti. Noi, ottusi dai racconti, assistiamo alla scena del ritorno del re, alla vendetta di Ulisse; da secoli ascoltiamo chi canta le gesta del sovrano, i grandi eventi, le storie dentro al palazzo. Intanto giù, al villaggio, c’erano i riti festivi in onore di Apollo! Io voglio fare un film sulla festa popolare nel villaggio dell’isola: ci sono le danze rituali, i sacrifici, le risate delle fanciulle e i vecchi che si grattano la barba sotto il sole. Ogni tanto si sentono urla lontane di strage provenire dalla dimora di quel re scomparso tempo prima per conquistare lontane città – ma che importa? La festa prosegue fino a sera e il fumo dei bracieri sale fra le fronde degli ulivi mentre tramonta il sole”. Ed è così che Adolfo B. Casarsa è partito per Itaca. (note a cura dell’Assembramento di Ricerca Cinematografica)