Nel 1952, su un settimanale svedese, Stig Dagerman risponde a una lettera di una studentessa, Britt-Marie Tidbeck. Tidbeck chiede che senso abbia la scuola e si figura la liberazione alla fine dell’ultimo giorno d’istruzione. Dagerman risponde che dieci anni prima, quando ancora era studente, era “più libero […] di quanto lo sia adesso”. Certo, “in quegli anni avevo spesso, per non dire sempre, la sensazione che la scuola fosse una prigione, gli insegnanti fossero i carcerieri e le lezioni e i compiti scritti lavori forzati”. Dagerman sa che la scuola è il riflesso della società oppressiva intorno. Eppure insiste: “Che cos’è infatti un’insufficienza se paragonata a un licenziamento? O il suono di una campanella in confronto a un orologio marcatempo? Cos’è un capoclasse se paragonato a un controllore dei tempi di produzione?”. Forse la scuola è un luogo dove la disciplina e la violenza sono simili a quelle del mondo produttivo, ma si dispiegano con minore intensità. Allora nella scuola è ancora possibile maturare “un senso di libertà” e questo senso è “la cosa più preziosa che possiede”. Dagerman augura a Tidbeck di conservare sempre il senso di libertà elaborato nel chiuso della classe, così da resistere, in futuro, al conformismo della società degli adulti.
Fin dal primo anno d’insegnamento lo scritto di Dagerman è per me un riferimento. L’aula dove sto è una contraddizione: spesso spazio d’oppressione, delirio disciplinare, indigesta e odiosa per chi vi studia; eppure uno dei pochi luoghi che conosco dove affinare strumenti per criticare, guadagnare consapevolezza, emanciparsi. Questa contraddizione è il punto debole di ogni mio pensiero sulla scuola pubblica; avere la coscienza della contraddizione è anche il fondamento di pratiche e ragionamenti che sperimento ogni giorno. La lettera di Dagerman ha accompagnato anche questo tempo di pandemia: la scuola odierna non si può difendere e andrebbe trasformata, eppure è necessario che resti aperta, accogliente, inclusiva.
Quest’anno ha portato con sé una nuova forma di esclusione, e discriminatoria. Nel decreto legge del 7 gennaio 2022 si stabiliscono, per le scuole secondarie, le regole di gestione da applicare qualora vi siano in classe due casi di positività all’infezione da Sars-CoV-2. Se vi sono due positivi gli studenti dotati di un lasciapassare verde ben aggiornato possono seguire le lezioni in presenza, gli altri devono restare a casa e partecipare in didattica digitale integrata. Con il decreto legge del 4 febbraio 2022 questa condizione si estende anche alle scuole primarie qualora i positivi siano almeno cinque. A fine gennaio il presidente della regione Piemonte ha affermato che “va premiato il bambino che si è vaccinato: bisogna lasciarlo in classe”. La confusione tra diritti e premi è un sintomo vivido del ribaltamento di senso proprio del nostro tempo.
Oggi una classe può essere divisa e la separazione dipende da una scelta su un trattamento sanitario non obbligatorio. Il paradosso vale anche per chi lavora, è vero, ma in questo caso la discriminazione riguarda minori ancora soggetti ai loro tutori. Una mossa così perversa da sembrare un ulteriore ricatto imposto agli adulti renitenti. Ci sono studenti bloccati all’ingresso e invitati a tornare a casa perché privi di lasciapassare verde o perché il codice a barre è illeggibile, docenti tenuti a visionare con il tablet i documenti digitali degli studenti, lavoratori Ata trasformati in controllori delle soglie. E per fortuna non tutti gli istituti hanno dirigenti zelanti e forse, al momento, le resistenze più efficaci sussistono grazie a una sciatteria suffragata dai punti ciechi lasciati dal legislatore. Trovo sia superfluo menzionare la costituzione e il diritto allo studio, ricordare la nostra tradizione d’una pedagogia degli oppressi, ribadire la consapevolezza che la didattica digitale non è un’alternativa, ma il sogno realizzato di una scuola neoliberale. M’aggrappo qui a quanto ho intuito in questi anni: non esiste insegnamento d’emancipazione al di fuori d’una collettività, la comunità d’una classe che apprende.
Ho letto un’integrazione al regolamento di un istituto di Torino, è stata redatta durante il nostro tempo di pandemia. Il regolamento stabilisce che un allievo colto a violare il Protocollo di sicurezza della scuola può essere allontanato dall’edificio. In seguito all’espulsione il consiglio di classe è tenuto a riunirsi in via straordinaria per “decidere la sanzione disciplinare applicabile”. La punizione principale è “l’allontanamento dalla scuola” fino “al ravvedimento operoso dello studente”. L’esclusione può variare dai tre ai quindici giorni e il “diritto allo studio” sarebbe garantito “attraverso la didattica digitale”. Pare un confinamento digitale degli indisciplinati. Tra decreti legge e regolamenti speciali dei singoli istituti sorge una formula nuova: il diritto allo studio può essere garantito fuori dalla scuola grazie alla conversione virtuale dello spazio didattico. Si preparano così strumenti disciplinari che possono estromettere dalla classe gli studenti ingestibili, fuori controllo e marginali senza formalmente contravvenire ai diritti costituzionali. La pandemia diventa ancora occasione per immaginare nuove forme dell’esclusione e del disciplinamento.
La convenzione propria agli scritti come questo – ormai cristallizzata – prevede ora un chiarimento da parte mia. Dovrei affermare che sono vaccinato, che il virus esiste e che il vaccino protegge gli individui più fragili. Dovrebbe seguire il paragrafo dedicato alla trasmissibilità del contagio anche tra i vaccinati e dunque alla irrazionalità sanitaria della separazione nelle scuole. Tuttavia anche questi ragionamenti – che a farli suonare con le nocche rimbombano vani – sono la prova di quanto il pensiero si muova all’ombra dell’egemonia di governo e organi di stampa. Invischiato in una rete di ricatti simbolici, dovrei chiarire l’evidenza: lo stesso discorso che sfiora la pandemia e la sua gestione è una trappola. E anche la lingua è una tagliola, perché le parole appartengono allo stesso vocabolario dei termini impiegati nei decreti legge, nei commenti virtuali e negli articoli sui quotidiani. Nel territorio desertico del linguaggio attuale quasi non resta rifugio – se non ai limiti del silenzio o del puro suono. Eppure questo testo deve avere un significato letterale e allora, come in classe, non mi resta che costruire su un vuoto: la coscienza della contraddizione.
Mi sembra che il principale effetto di queste trappole è quello di chiuderci in fazioni omologate, oppure di lasciarci soli ad agire come singoli. Nella città dove vivo s’aggirano individui che arroganti discettano sui canali virtuali o tronfi parlano al megafono: il fisico accademico povero di coscienza pedagogica vorrebbe le scuole chiuse; il giurista ossessionato da sé stesso s’insinua nelle contestazioni contro il lasciapassare per nutrire il suo ego. Esistono poi, ed è la migliore delle ipotesi, singoli docenti che progettano forme di ribellione contro la discriminazione a scuola, o si esprimono critici sulle bolle blu del mondo virtuale. È un bene, ma ho il timore che ogni opposizione – per quanto legittima – sia soffocata nell’isolamento, apparentata al gesto mitomane, inefficace infine. In questo quadro mancano voci collettive, corpi comunitari senza il volto d’un portabandiera: i sindacati di base si muovono circospetti e insicuri, la rete di Priorità alla scuola contesta la discriminazione in modo blando e non richiede l’abolizione del lasciapassare verde nelle scuole. Di sindacati confederali e partiti che si richiamano ai valori della sinistra meglio non scrivere.
Se esiste una possibilità per contestare queste discriminazioni, essa parte dalla costruzione di legami d’intesa tra lavoratori e lavoratrici negli istituti. Da queste relazioni possono nascere reti urbane critiche, certo marginali. Soltanto a partire da un’organizzazione collettiva, per quanto fragile, è possibile impostare un programma dissidente. Il primo passo, credo necessario, è discutere in classe il problema e ascoltare allieve e allievi, nutrire con dubbi e domande il dialogo senza imporre loro una linea di pensiero definita a priori. L’eventuale solidarietà tra chi ha accolto il trattamento sanitario e chi ha preferito di no è l’evento più fecondo in questo frangente. Qualora la classe, in autonomia, ritenga inaccettabile la discriminazione, si possono allora elaborare comuni strategie per evitare la selezione all’ingresso. I piani di offerta formativa di alcuni istituti prevedono pratiche didattiche alternative come la scuola all’aperto: possono essere strumenti utili per realizzare lezioni fuori da scuola, e inclusive. Almeno la primavera s’avvicina.
È probabile che il calo dei contagi renderà rare le occasioni di separazione. Non importa, è il formale principio d’esclusione da contrastare prima che penetri profondo nella coscienza. Ribellarsi al green pass per gli studenti e richiederne l’abolizione può essere l’opportunità di rompere gli automatismi del pensiero e le cerchie chiuse dei discorsi, dare sfogo a dubbi latenti, coinvolgere chi, disorientato tra gli adulti, sinora è stato vinto dall’inerzia. Agli studenti non intendo suggerire alcunché. A Torino hanno occupato più di cinque istituti per contestare l’ambiguo confine tra scuola e lavoro: resto in ascolto, devo riporre speranza in loro. Nella lettera a Tidbeck scriveva Dagerman: “Con il tempo ho imparato che i cosiddetti buoni consigli non solo costano caro, ma nella maggior parte dei casi sono anche privi di senso”. Non ho buoni consigli da rivolgere agli studenti, se non quello di continuare una lotta in autonomia. (francesco migliaccio)