Da: Repubblica Napoli del 12 dicembre
Sabato alle 18 la libreria Ubik ospita la presentazione del libro di Giovanni Zoppoli “Fare scuola, fare città. Il lavoro sociale al tempo della crisi” (edizioni dell’asino), una raccolta di articoli apparsi in libri e riviste nell’arco degli ultimi dieci anni. Zoppoli è stato attivista nei campi rom a Napoli durante gli anni Novanta, poi educatore “professionale” a Bolzano, infine fondatore qualche anno fa del centro territoriale Mammut a Scampia. Il nucleo del racconto ruota intorno alle vicende dei rom e della periferia nord, ma la riflessione investe l’intera parabola del lavoro sociale in Italia negli ultimi vent’anni: come poteva essere, come è stato, e come probabilmente sarà in futuro. Il titolo del libro comprende sia la scuola che la città, ma Zoppoli fa parte di una generazione di educatori che si è formata soprattutto “dentro” la seconda, in luoghi dove spesso la scuola non arrivava nemmeno e in anni di transizione delle politiche sociali, in cui il pubblico cominciava a trasferire servizi e risorse verso il privato ed era ancora possibile immaginare interventi slegati dalla burocrazia e dal pregiudizio, aperti al rischio, alla scoperta di relazioni impreviste e piene di potenzialità. La storia, una volta di più, è andata in un altro modo: ottusità istituzionale, concorrenza al ribasso tra associazioni, monopoli basati su un’ambigua intimità con la politica; e quindi, con il passare degli anni e il diminuire dei soldi a disposizione, sempre meno spazio per gli esperimenti, qualità del lavoro in caduta libera e soprattutto pochi miglioramenti per i presunti beneficiari: le minoranze, le donne, i bambini e le loro famiglie; anzi, peggioramento delle condizioni di vita per tutti.
Quella leva di giovani provenienti dal ceto medio che avevano scoperto, a contatto con i rom, con i primi migranti, con gli eterni scugnizzi figli del sottoproletariato, l’esistenza di altre città dentro quella ignara e rassicurante in cui erano cresciuti, non hanno fatto in tempo a fabbricarsi i propri attrezzi del mestiere che sono stati prima cooptati dalle strutture più organizzate, poi brevemente illusi che il proprio agire potesse avere un senso, infine rapidamente stritolati dai meccanismi di una “produttività” poco qualificata e tesa soltanto alla riproduzione di un ceto professionale; tanti educatori di strada, sempre meno giovani e ogni giorno più demotivati, hanno cominciato a ricevere stipendi con mesi o anni di ritardo; hanno visto la propria vicinanza alle persone in difficoltà spezzettata in tanti frammenti non comunicanti tra loro; la propria formazione, lontana e alternativa alla scuola e alle accademie, venire messa in discussione quasi fosse una colpa e non un’occasione da cogliere; i più intraprendenti hanno provato a incidere sulle politiche pubbliche, accettando la responsabilità dell’impresa sociale e la sfida di una competizione viziata, con il risultato che adesso si trovano a dover affrontare difficoltà finanziarie esorbitanti, molto maggiori di chi se non altro si è tenuto ai margini del sistema. Gli unici rimasti a galla in questo scenario di macerie sono i soliti noti, con molte relazioni e pochi scrupoli, ancora aggrappati al carro della politica in attesa di essere disarcionati magari da un giudice che si metta in testa di “fare come a Roma”.
Le previsioni più fosche si sono avverate, e non c’era bisogno dell’inchiesta romana per scoprire il pantano delle politiche sociali nel nostro paese. Le alternative non sono molte e questa raccolta va letta anche come un invito a non perdersi d’animo, a restare attivi e critici, ragionando sui modi del cambiamento a partire dalle esperienze di intervento sul campo. Gli anni del centrosinistra in Campania sono stati nefasti, con le politiche sociali appaltate ai funzionari cresciuti intorno ai partiti della sinistra- sinistra, tra rigidità ideologiche e vecchi pregiudizi di classe, quando non proprio derive clientelari. Il risultato è un sistema che non funziona più, che non produce benefici, eguaglianza, diritti per le persone che si rivolgono a esso. Ma negli ultimi anni anche queste politiche si stanno sfaldando. Il pubblico abbandona la nave che affonda, indicando nel privato solidale il nuovo possibile capitano. E se un tempo era opportuno criticare il welfare riformista “che ti assiste dalla culla alla tomba”, oggi è altrettanto urgente decostruire il ritorno alla filantropia ottocentesca sotto le spoglie di start up solidali, del mecenatismo delle fondazioni bancarie e dell’umiliante pratica del marketing sociale, con i poverelli esibiti sul palco alla vecchia maniera, mentre in platea i benefattori battono le mani, soddisfatti della buona azione e rassicurati che intorno tutto resti com’è. L’antidoto a questa deriva è nell’esortazione che tiene insieme le pratiche e le riflessioni raccolte nel libro di Zoppoli, ovvero che non esiste intervento sociale, per quanto consapevole e all’avanguardia, se non è accompagnato dallo scontro con la realtà così com’è, ovvero da una visione dei cambiamenti della società — legislativi, urbanistici, del linguaggio, del costume — che vadano nella direzione dell’emancipazione e della giustizia sociale. (luca rossomando)