A scuola Teresa ci parlava spesso della sua fabbrica. Era stato il papà a comprare le macchine, a tirarla su a furia di debiti, a tenerla in piedi giocando al ribasso con i committenti. Era stanco di lavorare per altri e fare “il guaglione” a vita. Oltre alla mamma ci lavoravano dieci ragazze. Si assemblavano borse e portafogli con turni di dieci ore al giorno per conto di grandi firme della moda italiana. Teresa era addetta alla cucitura delle etichette. La fabbrica era stata allestita nello scantinato della sua villetta in affitto alla periferia di Pomigliano d’Arco. Una mattina decidemmo di marinare la scuola per andare a vederla: cinquanta metri quadri, otto macchine e due finestre ad altezza solaio. Il resto era pelle, umidità e puzza di sudore.
In Italia, secondo gli ultimi dati disponibili, il sistema della moda contribuisce al quindici per cento dell’occupazione manifatturiera e rappresenta il secondo settore in termini dimensionali del comparto, subito dopo la meccanica, per estensione del tessuto produttivo e ammontare delle esportazioni. È un sistema composto da alcune grandi imprese che si dedicano principalmente ad attività di ricerca e innovazione, e da un fitto tessuto di piccole e medie imprese specializzate in una o più fasi del processo produttivo e che lavorano prevalentemente per conto terzi.
La maggior parte dei venditori – imprese nazionali e multinazionali – struttura il proprio business mantenendo all’interno dell’azienda solo le fasi di disegno e marketing del prodotto, facendo poi ricorso alle catene di fornitori, i quali a loro volta subappaltano la manifattura o parti di essa ad altre imprese. Nelle grandi città hanno sede i marchi più importanti, che interagiscono con le realtà periferiche, distretti produttivi di diverse regioni italiane, attraverso rapporti di fornitura. Sono soprattutto i distretti delle regioni meridionali a operare per conto terzi.
In Campania sono presenti quattro distretti industriali collegati al sistema moda: il distretto delle calzature napoletane, quello tessile-abbigliamento di San Giuseppe Vesuviano, il distretto tessile di Sant’Agata dei Goti, e infine il distretto conciario di Solofra. Secondo uno studio dell’Ires Cgil, in Campania, il sistema moda – inteso come tessile, abbigliamento, concia, pellami, calzature e borse – occupa quasi diciassettemila persone e registra la massima concentrazione di imprese nella provincia di Napoli.
A Casalnuovo ho incontrato Pasquale, operaio in un’impresa specializzata nella produzione di pantaloni da uomo eleganti per conto di marchi italiani e stranieri. La sua mansione consiste nel preparare gli accessori da inserire sui capi che vengono lavorati. L’azienda si occupa di taglio, cucitura e confezionamento. Pasquale mi descrive il meccanismo della filiera e le modalità attraverso le quali operano gran parte delle aziende del settore. «L’azienda lavora per conto terzi. Ci sono grosse aziende che ci portano il tessuto e noi lo lavoriamo. Facciamo i capi per loro, con il loro marchio e tutto. Sulla base dei loro modelli, lo confezioniamo e lo mandiamo a destinazione. Si tratta di solito di abiti eleganti maschili, anche se ultimamente stiamo cominciando a fare anche jeans. Il jeans è diverso perché si punta soprattutto ai negozi. Per esempio, se tu hai un negozio con il tuo marchio, vieni da noi e dici: “A me piace questo pantalone però devi mettere il mio marchio”. E noi te lo facciamo».
Quando chiedo a Pasquale in quale segmento di mercato confluisce la merce prodotta in azienda, mi fa notare che tutto dipende dal tipo di commessa. Si può lavorare sia sulla quantità che sulla qualità, sia con piccoli marchi che con grandi marchi. «Noi facciamo anche capi che vengono venduti a ottocento dollari. Ci sono sarti bravissimi che fanno l’abito. I marchi più conosciuti per cui lavoriamo fanno capo a grandi imprenditori che stanno su altri mercati. Uno dei più importanti è un marchio straniero che ogni anno acquista qualcosa come settantamila pantaloni. Sono pantaloni su cui c’è poco guadagno ma si gioca molto sulla quantità. Ogni mese, dalla fabbrica partono quattro container di pantaloni. Pensa che un solo container ne contiene quattromila. Sedicimila pantaloni al mese. Questa è una commessa che viene rinnovata ogni anno e sono quasi sei anni che lavoriamo per loro. Poi ci sono anche altri marchi italiani di una certa qualità».
Pasquale in fabbrica ci è arrivato un anno e mezzo fa. Ha fatto diversi mestieri nei suoi dieci anni di lavoro, ma gli unici contratti che ricorda sono quello stipulato con i carabinieri nel 2003, della durata di dodici mesi, e quello con Trenitalia nel 2004, della durata di tre mesi. «Io lavoro dalle otto del mattino alle cinque del pomeriggio e guadagno trentacinque euro al giorno. Sono ottocentocinquanta euro al mese, compresa la mezza giornata del sabato che te la pagano come giornata intera. Poi se non vai a lavorare, o per malattia o per altri motivi, non guadagni proprio niente».
Una delle caratteristiche dei sistemi produttivi campani legati al settore della moda, come documentato da numerosi studi e ricerche, consiste nel fatto che molti di essi risultano ancorati ad attività sommerse. Sono molte, infatti, le aziende contoterziste del settore che impiegano ampie quote di manodopera irregolare e che si avvalgono, nell’attività produttiva, di rapporti di fornitura con altre imprese spesso nemmeno registrate alla Camera di commercio e per le quali il lavoro nero rappresenta l’unica modalità d’ingaggio possibile.
La tendenza delle imprese contoterziste a ricorrere a loro volta a catene di sub-fornitori è una delle caratteristiche più rilevanti assunte dal settore negli ultimi anni. Questa pratica, definita “sub-fornitura di secondo livello”, vede le imprese che tradizionalmente operavano per conto terzi diventare committenti. In sostanza, la propensione dei grandi marchi a concentrarsi sulle attività di core business aziendale (disegno, progettazione, marketing, pubblicità, ecc.) spinge le aziende contoterziste a ricercare sub-fornitori e a organizzare l’intera filiera di produzione.
In sintesi, è la frammentazione del processo produttivo il combustibile che alimenta il motore del lavoro irregolare. Prendiamo in esame i meccanismi di funzionamento del settore calzaturiero. Operazioni quali taglio, realizzazione della tomaia, orlatura, assemblaggio, vengono date in appalto all’esterno dell’azienda. Il sub-committente riceve la commessa direttamente dal grande marchio e stabilisce ulteriori appalti con aziende fornitrici. Si tratta di enormi volumi di produzione esternalizzata che sfuggono alla tracciabilità, finendo in imprese dove spesso a disciplinare i rapporti di lavoro non sono le leggi dello stato ma quelle del mercato. Blocchi di produzione incontrollabili poiché i marchi non esercitano alcun tipo di controllo né sul sub-committente né sulla filiera.
Alla fine della filiera però, quando tutto rientra nell’azienda del sub-committente, il processo diventa magicamente regolare, cioè fatturabile. In sostanza, dal marchio che fattura venti milioni di euro all’anno a quello che ne fattura due, non troveremo mai uno di questi direttamente coinvolti nella violazione dei diritti in materia di lavoro.
Secondo le organizzazioni sindacali, nelle aziende sub-fornitrici i livelli salariali e le ore di lavoro sono fortemente variabili sulla base della regolarità contrattuale: dai lavoratori in nero con una paga che non supera i sette-ottocento euro mensili e con orari di lavoro che spesso superano le otto ore al giorno, fino a quanti sono assunti con contratti atipici, che spesso si collocano nell’area del lavoro grigio, con una paga da mille euro o più e con orari di gran lunga superiori ai limiti previsti dal contratto stipulato.
Ad Aversa ho incontrato Luciano. Ci siamo dati appuntamento nel bar di fronte al Municipio. L’ho conosciuto allo sportello vertenze della Cgil di Napoli. Ha trentotto anni e da cinque anni lavora a nero in un piccolo calzaturificio di Frattaminore. Sono tre mesi che non percepisce stipendio e ha ricevuto minacce di licenziamento. Lavora in un laboratorio di quindici operai specializzato nell’assemblaggio di calzature per aziende contoterziste che lavorano per grandi marchi Italiani. «Facciamo soprattutto calzature da donna, quelle che vedi nei negozi delle strade del lusso. Loro ci portano tutto il materiale e noi le assembliamo. Ci sta una fabbrica che, siccome sta sempre piena, ci dà il lavoro in subappalto anche a noi. Il proprietario è un parente del mio titolare. Il laboratorio sta nella tavernetta della villa del titolare. È un laboratorio con le cose essenziali, i macchinari che servono. Io sono addetto al taglio dei vari pezzi della tomaia e della fodera. Poi c’è la fase della giunteria che consiste nell’incollare le parti dando forma alla tomaia e alla fodera. La tomaia viene poi rifinita quando si fa l’orlatura, che consiste nel cucire le parti assemblate e nel togliere tutto il materiale che esce fuori dalle cuciture. Quando tutto è pronto si passa al montaggio della tomaia sul sottopiede con un’operazione tutta particolare».
Luciano ha lavorato in diversi calzaturifici del distretto napoletano. Ha cominciato all’età di ventidue anni e ha imparato velocemente il mestiere grazie agli insegnamenti del padre, operaio anch’egli in un calzaturificio di Aversa per quasi trent’anni. I marchi per cui lavora sono destinati soprattutto al mercato interno. Nella fabbrichetta si producono circa cinquecento pezzi a settimana. I turni sono di quasi dieci ore e a lavorarci sono soprattutto donne. La paga è di quaranta euro al giorno. «Su quindici, solo due “stanno a posto” con i contributi: il titolare e il fratello. Il resto siamo a nero. Qualcuno devi tenerlo inquadrato per forza, altrimenti con certi marchi non puoi lavorare. A me la fabbrica non piace. Ho lavorato per dieci anni nella fabbrica dove lavorava papà e l’ho vista la differenza. Lì il lavoro lo prendevi direttamente dal marchio, qui invece devi aspettare che te lo passano le imprese sub-committenti e stai certo che loro cercano sempre di tirare sul prezzo. Poi vedi che nel negozio la scarpa costa due-trecento euro e t’innervosisci».
Il lavoro di Luciano asseconda i tempi e i ritmi dei piani di produzione semestrali delle stagioni della moda. Stagioni esposte ai venti della domanda e alle turbolenze dei mercati. Le sue mani mi ricordano quelle della mamma di Teresa: consumate, nere, stanche di ingrassare le catene del lusso. (giuseppe d’onofrio)
Buongiorno mi presento sono Giuseppe..cerchiamo lavoro come conti terzi..se siete interessati..passiamo prendere un appuntamento..per mostrarvi una piccola campionatura