Sono le cinque del mattino. È notte fonda alla fermata Schiava di Tufino. In questo punto preciso la strada statale 7 bis – la stessa che un tempo attraversava i comuni della provincia di “Terra di lavoro” – segna il confine tra la provincia di Napoli e quella di Avellino. Qui sono anni che la terra non offre più frutti né chiede braccia. Per anni si è cibata dei liquidi putrefatti rigurgitati da due discariche a cielo aperto. Sulla prima sorge ora lo stabilimento di tritovagliatura e imballaggio rifiuti. L’altra, posta ai piedi di una montagna semidivorata dalle picconate degli escavatori, funge invece da base logistica per le attività estrattive del gruppo Marinelli.
Quella di Schiava è una fermata fantasma, una di quelle segnalate dalla semplice presenza di umani sull’asfalto. Alle cinque e dieci, come ogni mattina, Pasquale arriva col suo pullman, spalanca le porte e raccoglie velocemente i viaggiatori in attesa, infagottati e infreddoliti. A bordo il pullman è quasi pieno. Qualcuno dorme, altri chiacchierano. A conoscersi sono in molti, si parla di figli, di mariti, di lavoro. A Nola Pasquale si ferma di nuovo. A salire sono soprattutto donne, giovani e adulte, dall’aspetto sobrio e discreto. Al loro buongiorno Pasquale risponde con un tenue cenno del capo, poi, chiuse le porte, ingrana la prima, percorre un chilometro e imbocca l’autostrada. La destinazione è quella di sempre: Roma Tiburtina. Sono circa trent’anni – tre corse al giorno per sei giorni su sette – che i pullman della ditta Acierno, al costo mensile di trecentodieci euro, assecondano il libero movimento migratorio della popolazione residente nella bassa Irpinia e nella pianura nolana. È solo uno dei mezzi su cui, quotidianamente e silenziosamente, si muovono dalla Campania le migliaia di insegnanti della scuola pubblica costrette a braccare il loro lavoro altrove, fuori regione, in terre meno sature.
Sul sedile accanto al mio c’è Stefania. È al telefono. Con voce sommessa raccomanda alla mamma di accompagnare in auto i suoi bambini a scuola. Stefania insegna in una scuola del quartiere Nomentano, è lì da settembre e deve rimanerci fino al mese prossimo. La sua è una supplenza su una maternità, una di quelle, nell’universo dei flessibili, esenti da ansie e sbattimenti: «Erano anni che non mi capitava una supplenza così lunga. Per ora sono in questa scuola, poi il mese prossimo si vedrà. Magari riesco a ottenere un’altra supplenza fino al 30 giugno così chiudo in bellezza. Ormai all’incarico annuale c’ho rinunciato, sono anni che aspetto la chiamata dal provveditorato… Di mattina purtroppo mi tocca fare questo perché pure se volessi trasferirmi non potrei farlo. Non so mai dove lavoro e soprattutto quanto ci rimango. E poi l’affitto a Roma è quello che è…». Sono quasi le sei quando Stefania ripone la testa sul cuscino lasciandosi rapire dal sonno. Il suo volto è pervaso dalla stessa spossatezza che leggevo da piccolo nel volto di mio padre, pendolare anch’egli per quasi dieci anni su questa stessa rotta, a bordo di questo stesso pullman.
Sono le otto e un quarto quando il pullman arriva alla stazione Tiburtina. Qui pendolari di lunga e breve distanza si mescolano e si confondono tra loro nei vagoni traboccanti della metropolitana romana. Giovanna non ha fretta, temporeggia, fuma con le amiche. L’ho conosciuta a Schiava e mi invita ad aspettare per percorrere con loro il tragitto in metropolitana. Al bar centrale della stazione Termini ci sediamo e ordiniamo quattro caffè. È lei a raccontarmi della sua vita, di una quotidianità traballante, di un lavoro stentato. «Faccio questo quasi tutti i santi giorni. Arrivo a Termini con le altre, ci sediamo, prendiamo il caffè e aspettiamo al tavolo la chiamata dalle scuole. L’unico problema è che devi venire a Roma tutte le mattine, aspettare la chiamata, ed essere fortunata che a chiamarti sia una scuola facilmente raggiungibile in metro. Se nessuno ti chiama torni a casa con il primo pullman, quello delle due. Da Nola siamo in molte a fare questa vita. Io lavoro sulle supplenze brevi. In un mese riesco a fare anche dieci-quindici giorni di lavoro se mi va bene. Alla fine per lavorare devi sperare che qualche collega stia male o si riposi un po’. Poi non hai ferie, non puoi prendere un giorno di malattia… Io ho cominciato tre anni fa proprio qui, in una scuola nei pressi della stazione. Sono sposata e ho due bambini, a loro però ci pensa il padre perché lavora vicino. Io invece torno tardi e di sera riesco a stento a controllargli i compiti, poi devo andare a letto presto perché di mattina è un’altra avventura! Purtroppo è così, ci tocca fare punteggio sperando di passare presto in prima fascia e lavorare con l’in- carico annuale dal provveditorato. Del ruolo non ne parliamo proprio, secondo me io l’avrò a cinquant’anni…».
Giovanna è un’insegnante di terza fascia, inserita nelle graduatorie di trenta istituti della città di Roma. È una delle tantissime insegnanti pendolari che ogni mattina popolano i bar attorno alla stazione Termini in attesa di uno squillo di telefono. Appartiene al sottoprecariato della scuola, al segmento più flessibile dei lavoratori e delle lavoratrici della pubblica istruzione, oltraggiato e stremato da quasi un decennio di ottuse politiche di contenimento della spesa pubblica. Qui il lavoro si presenta in forme archetipe, barbare: a chiamata, e lo si ottiene poi solo per pochi giorni o per poche ore. Il resto è una misera indennità di disoccupazione, incapace di ripagare il costo umano di un’esistenza priva di minime certezze e prospettive.
La signora Giuseppina mi osserva con occhi austeri. Stringe il telefono tra le mani e controlla l’orario con una frequenza ossessiva. Ha quasi cinquant’anni, fa la bidella e ha cominciato a lavorare solo pochi anni fa, dopo la scomparsa del marito. «Io sto vedendo tutti i giorni cosa significa diminuire il personale nella scuola. La maggior parte delle bidelle hanno la mia età e non hanno la forza per fare bene il loro lavoro. Siamo poche e dobbiamo fare quello che prima si faceva in tanti. Io poi vengo da Nola tutte le mattine e quando mi chiamano faccio quello che posso perché arrivo già stanca. Poi, per quello che ci pagano ti passa proprio la voglia… Io grazie alla pensione di mio marito riesco a pagarmi l’abbonamento per venire qui tutte le mattine e a fare la spesa per i figli. Per il resto, con il mio lavoro, tre giorni qua, tre giorni là… alla fine non guadagni nemmeno settecento euro al mese». Sono le nove quando squilla il telefono di Giovanna. È una scuola nei pressi di piazza di Spagna, una supplenza di cinque giorni. Per Giuseppina e le altre si vedrà, c’è tempo fino a mezzogiorno. Giovanna corre intanto veloce verso le scale mobili che portano alla metro. Prima di essere inghiottita dalla folla si volta e ci sorride, lei: pendolare a lunga distanza con un lavoro a breve scadenza. (giuseppe d’onofrio)