Il 7 maggio la Città di Torino e la Regione Piemonte hanno presentato un esposto in procura, affinché la magistratura valuti se sussiste il reato di apologia di fascismo per i vertici della casa editrice Altaforte. È il nuovo capitolo di una polemica interessante soltanto perché svela le ipocrisie di un sistema di interessi, l’inconsistenza maldestra dei funzionari della cultura, la superficialità del linguaggio che domina il discorso pubblico.
Le immagini più recenti che conservo del salone del libro di Torino risalgono al 2017. Uscivamo fuori dal capannone per parlarci, addossati a una cancellata tra alberi e cemento. Dentro un brusio continuo impediva il discorso vivo: si stava in uno spazio di transito tra stand, viavai affrettati e code; non esistevano relazioni tra le donne e gli uomini di passaggio. Alcune sale per dibattiti erano delimitate da pareti in cartongesso senza soffitto: scrittori, intellettuali ed editori urlavano stremati nei microfoni, la voce si perdeva. Nelle sale più confortevoli rappresentanti del potere, luminari e cortigiani intessevano linguaggi forbiti in superficie. Ricordo il passaggio di Minniti, allora ministro, protetto da divise, cravatte e auricolari. S’aggiravano nel rumore vuoto personaggi come Vittorio Sgarbi, Davide Casaleggio, Farinetti di Eataly. Era il primo anno della direzione di Nicola Lagioia.
Nonostante la nuova guida, nulla era cambiato: il salone restava macchina asettica dove le parole e i pensieri andavano esposti, tritati, digeriti. Il direttore e i suoi aiutanti mi sembravano la riverniciatura necessaria – apparentemente critica, impegnata, indipendente – a respingere gli attacchi della fiera di Milano. Ora i loro esercizi di equilibrismo rivelano l’originaria goffaggine. “Siamo antifascisti”, scrive il direttore Lagioia, ma senza autorità sulla “gestione degli stand”. “Questa esperienza deve unirci, non dividerci”, aggiunge, e il salone è un “bene comune”, la “casa di tutti gli amanti dei libri”. L’ipocrisia è il marchio di fabbrica di un sistema omogeneo, compatto, nonostante le apparenti sfumature, i fragili posizionamenti. Saviano annuncia la sua presenza promuovendo in video il nuovo libro. Sindaco di Torino, presidente della Regione e redazioni di giornali tentano di coniugare antifascismo e responsabile presenza al salone. Michela Murgia conia parole d’ordine. “Mi unisco alla protesta, ma vado”, spiega Concita De Gregorio su la Repubblica. Qualcuno ha già pagato lo stand, quindi a Torino ci sarà, ma “come si sta in un campo di battaglia”. Ha ancora il tempo di sfilarsi chi ha meno da perdere, o chi ha soltanto da guadagnare perché è già affermato nel circuito industriale dei simboli.
È assente dal dibattito una storia del salone e del sistema di potere che lo sostiene. I partner del salone sono, tra gli altri, Intesa Sanpaolo, Lavazza e Mercato Centrale: la fondazione affiliata alla banca detiene ormai il monopolio della produzione culturale in città; la compagnia del caffè sta investendo in Aurora, quartiere oggetto di sgomberi e speculazioni immobiliari; il Mercato Centrale, da poco inaugurato a Porta Palazzo, è l’argomento preferito dalla giunta per promettere sogni di riqualificazione. E poi, perché non riflettere sul modello editoriale che ci circonda? Quali sono, per esempio, le politiche economiche e culturali di Einaudi e Feltrinelli e quale la loro storia? Perché non si esplorano a fondo i complessi rapporti tra linguaggio omogeneo, produzione bulimica di significati e conformismo di stile e pensiero? E perché nel turbinare delle polemiche a stento notiamo quanto siamo parlati dalla tecnologia, impigliati nel suo tempo che domina? Il salone – come altri stanchi padiglioni da fiera allestiti nelle città – è una configurazione materiale, un’organizzazione locale di queste domande.
Anni fa, era il 2013, un’amica trovò per strada un manifesto. Era la locandina di un salone alternativo organizzato al Gabrio. Una scritta – “Voi libri da vendere, noi micce da accendere” – emergeva contro un sole giallo. Ancora, in questa città e altrove, tra difficili margini, si sperimentano fiere per libri di fuoco. Nel 2012 :duepunti di Palermo – prima a tradurre Patrik Ourednik in Italia – disertò il salone perché incompatibile con la linea editoriale: “In attesa di scorgervi un mutamento di direzione, un’idea, una visione sull’editoria che cambia, salutiamo il Salone e le sue cene esclusive”. Esistono esperienze politiche, soggetti editoriali, gruppi e sbandati che oggi non hanno bisogno di confermare o disdire la presenza al salone: in ogni caso non ci sarebbero, non ci saremmo andati. (francesco migliaccio)