La questione dell’iscrizione anagrafica è entrata nel dibattito pubblico, ma ha anche cominciato a produrre conseguenze gravose nella vita delle persone, a partire dall’entrata in vigore del decreto Renzi-Lupi del marzo 2014. L’articolo 5 del decreto stabilisce l’impossibilità di chiedere “la residenza e l’allacciamento a pubblici servizi” per chiunque occupi “abusivamente un immobile senza titolo”. Già qualche anno prima, nel 2009, una legge del Pacchetto Sicurezza del governo Berlusconi aveva stabilito alcuni paletti all’iscrizione anagrafica, come la possibile verifica da parte degli ufficiali comunali, al momento della richiesta di iscrizione, “delle condizioni igienico-sanitarie dell’immobile in cui il richiedente intende fissare la propria residenza”.
L’Ordinamento delle anagrafi è uno strumento di registrazione della popolazione ma anche di erogazione delle prestazioni sociali (servizio sanitario, codice fiscale, contratti di affitto e di lavoro). Se da un lato, l’interpretazione restrittiva delle norme rende difficile la procedura di iscrizione nelle anagrafi, dall’altro tutto è reso più complicato dalle prassi schizofreniche degli uffici comunali. Soprattutto nelle città metropolitane o in quelle di grandi dimensioni, infatti, capita spesso che le modalità di iscrizione possano variare da un municipio all’altro, con grosse differenze tra uffici “accoglienti” e “respingenti”. Nel comune di Roma – dove le disomogeneità non riguardano solo i tempi di rilascio dell’iscrizione, ma anche i casi di rifiuto dell’autodichiarazione del titolo di godimento dell’immobile, o di subordinazione dell’iscrizione al controllo della regolarità fiscale di chi la richiede – un coordinamento di organizzazioni della società civile ha elaborato un documento che chiarisce le problematiche e propone delle soluzioni. “Riguardo all’art. 5 sull’anagrafe di Roma – spiega il testo – si segnalano tre ordini di problemi: l’esclusione dalla residenza di chi occupa ‘abusivamente’ e ‘senza titolo’ un immobile […]; la sostanziale esclusione dall’anagrafe di chi, pur non occupando ‘abusivamente’ o ‘senza titolo’, non è intestatario del contratto di locazione, o non possiede un titolo di godimento dell’immobile […]; in ultimo, il fatto che molte persone impossibilitate a registrare la residenza per il luogo in cui dimorano sono indotte dagli uffici municipali a iscriversi come persone senza fissa dimora: una incongruità profonda, quest’ultima, di tipo giuridico e sociale”. Tra le linee di intervento proposte, oltre alla richiesta di allineare le modalità di iscrizione tra i municipi, vi è quella per un’applicazione maggiore della deroga al decreto Renzi-Lupi che consente l’iscrizione di nuclei familiari con minori e persone meritevoli di tutela, anche in stato di occupazione.
L’impatto della normativa risulta particolarmente escludente per i cittadini stranieri, che hanno più difficoltà ad accedere al titolo di godimento di un immobile (anche un semplice contratto di locazione). Due criticità, inoltre, dal punto di vista delle prassi illegittime, riguardano il rifiuto dell’iscrizione per chi si trova in fase di rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno, e la richiesta del passaporto in aggiunta al titolo. Quest’ultima, in particolar modo, oltre che essere una richiesta molto onerosa per lo straniero, è del tutto illegittima per i titolari di protezione internazionale o ex umanitaria.
Assodata la difficoltà di ottenere un’iscrizione all’anagrafe, è ancor più paradossale che questa venga richiesta da alcune questure come requisito per ottenere un permesso di soggiorno, una condizione non prevista dalla legge fatta eccezione per pochi permessi, come quello Ue per soggiornanti di lungo periodo.
Le prassi illegittime non riguardano naturalmente solo la città di Roma. A Napoli, per esempio, si registrano frequenti difficoltà nell’accesso all’iscrizione anagrafica per le fasce più deboli di popolazione e in particolare per gli stranieri. M. è una cittadina nigeriana, titolare di protezione internazionale ed ex vittima di tratta. Vive dal 2016 a Napoli, e per sbloccare il rilascio del suo permesso di soggiorno ha dovuto intraprendere una battaglia legale. Sebbene il diritto dell’immigrazione non brilli per chiarezza, infatti, ci sono in esso passaggi indifferibili: innanzitutto, il permesso di soggiorno per protezione è un titolo rilasciato dalla questura ma espressione di un diritto soggettivo, che nel caso di protezione internazionale ed ex umanitaria ha fondamento nella Costituzione, e il cui rilascio non rientra nella sfera di discrezionalità della pubblica amministrazione; il permesso di soggiorno, inoltre, precede l’iscrizione anagrafica, che non è un requisito per l’emissione del titolo e non rappresenta un obbligo ai fini del suo rilascio, che dipende esclusivamente dal sussistere delle ragioni della protezione.
È vero che gli uffici immigrazione hanno un carico di lavoro enorme, e i tempi di rilascio si dilatano spesso ben oltre i sessanta giorni previsti dalla legge; a ciò si aggiungono però gli ostacoli relativi all’informatizzazione dei servizi, che anziché essere uno strumento di semplificazione si è trasformata in un fardello che obbliga spesso il richiedente a rivolgersi a soggetti terzi, per esempio quando per presentare la domanda di protezione occorre prendere appuntamento in questura attraverso posta elettronica certificata (tutti elementi che evidenziano come il sistema di accoglienza sia concepito a misura di intermediario, nelle vesti di cooperative, associazioni, sindacati, o in generale di organismi che “mediano” tra il migrante e le istituzioni).
Tornando a M., il suo diritto di soggiornare sul territorio italiano era stato riconosciuto dal giudice a marzo del 2020, eppure solamente ad agosto dello stesso anno la donna era riuscita a prenotare un appuntamento con la questura per l’avvio del procedimento. All’ostacolo temporale si è aggiunto quello sostanziale, dal momento che la questura ha bloccato il rilascio del titolo per l’assenza dell’iscrizione anagrafica, una richiesta che non trova nessun conforto normativo, e finisce per ostacolare l’emanazione di un titolo che dovrebbe avere un elevato livello di tutela nel diritto europeo. La prassi del diniego del permesso di soggiorno in mancanza di iscrizione anagrafica, invece, mette “sotto sequestro” lo status di rifugiato, poiché il suo titolare, fin quando non ottiene il titolo di soggiorno, non potrà godere di diritti come l’iscrizione al servizio sanitario nazionale, la scelta di un medico di base, il titolo di viaggio, il diritto a stipulare contratto di locazione o un contratto di lavoro, la partecipazione a percorsi formativi.
Se il caso di M. ha trovato una soluzione in una battaglia giudiziaria, chi tra i migranti non ha la possibilità di intraprendere questa strada ha davanti due scenari: il primo è quello di stabilire una residenza anagrafica presso il centro di accoglienza di cui è stato ospite, o presso associazioni iscritte al Registro delle persone senza dimora (ancora gli “intermediari”); il secondo spinge il migrante a rivolgersi al mercato sommerso delle residenze, con un tariffario preciso e molto remunerativo per la criminalità organizzata (una strada doppiamente pericolosa nel caso di una persona ex vittima di tratta o di abusi, che potrebbe nuovamente essere attratta nel vortice da cui è faticosamente uscita). Sostenuta da chi scrive, M. si è rifiutata di depositare l’iscrizione anagrafica, ha risposto alla questura sottolineando l’illegittimità della richiesta, e trascorsi sessanta giorni – in assenza di riscontro – ha presentato al Tribunale di Napoli un ricorso cautelare per ottenere il rilascio del permesso. Immancabilmente, il giorno precedente all’udienza che avrebbe deciso sul ricorso, M. ha ricevuto una comunicazione: il suo permesso era in fase di rilascio, anche senza iscrizione anagrafica. Una marcia indietro da parte della questura che se da un lato evita la creazione di un precedente giudiziario, dall’altro incoraggia tutti i migranti a sottrarsi da questa pratica illegittima. (stella arena / michela tuozzo)