Lunedì 13 dicembre. Arriviamo al campo di Ritsona verso mezzogiorno.
Siamo in aperta campagna. Alla nostra sinistra si distendono campi e colline, su cui delle enormi pale eoliche fendono le nubi più basse. Alla nostra destra un muro di cemento armato, alto almeno tre metri e mezzo, dietro il quale vivono più di tremila richiedenti asilo. Lo hanno costruito, dicono, per proteggerli.
Il cancello è aperto, nessuno impedisce agli abitanti di uscire. Ma siamo a oltre settanta chilometri da Atene, in mezzo alla campagna, e senza collegamenti con i trasporti pubblici gli abitanti del campo non hanno molte ragioni per lasciare le proprie baracche, i propri container. Entriamo senza incontrare alcun controllo.
Incontriamo però i lavoratori dell’accoglienza, riconoscibili dalle pettorine blu, indaffarati e immersi in concitate conversazioni con i richiedenti asilo. Sui container dove sono collocati i loro uffici è stampato il logo dell’Iom, International organization of migration, l’organizzazione internazionale responsabile per questo campo, in partnership con il governo greco. Ma Ritsona è solo uno dei dieci campi profughi che costellano la provincia dell’Attica, e ogni campo ha le sue dinamiche interne e un differente modello di gestione. A Lesbo, al campo di Moria, per fare un esempio noto, era l’Unhcr ad avere questa responsabilità, insieme al ministero dell’immigrazione e a una sessantina di Ong.
È la prima volta che entro in un vero e proprio campo profughi. Nel campo di Eleonas, l’unico campo non lontano dal centro di Atene, i guardiani mi avevano rimandato indietro, mentre a Moria non avevo nemmeno provato a entrare. Da quando ero sbarcato sull’isola non mi avevano ripetuto altro: o sei registrato con una Ong oppure al campo non ci entri.
Eppure questo posto mi è familiare. Mi ricorda i ghetti del foggiano, in particolare Mexico, noto anche come il ghetto di Borgo Mezzanone. Me lo ricordano le baracche auto-costruite, le dozzine di attività economiche informali, i negozietti, i bar, le rosticcerie, perfino l’internet point e i tabacchini. Me lo ricordano il fango della strada principale e i cani randagi che scorrazzano in giro, l’odore di carne grigliata che mi investe periodicamente.
Me lo ricorda perché anche Mexico, uno degli insediamenti informali più popolati in Italia, è cresciuto a fianco a un Cara, una delle strutture d’accoglienza più grandi d’Italia, e a separare il ghetto e la struttura d’accoglienza è solo una sottile e porosa recinzione.
Ma qui è pieno di bambini e bambine, che giocano e corrono in giro. Non ci sono gli adolescenti, ma solo perché sono ancora a scuola. Un’oretta più tardi vedrò un’intera scolaresca scendere da una corriera, zaini in spalla, ed entrare nel campo facendo una gran caciara.
Ci sono moltissime donne e parecchi anziani, ma soprattutto non c’è la stessa omogeneità che si incontra tra gli abitanti di Borgo Mezzanone, perlopiù giovani uomini provenienti nella maggioranza dei casi da paesi dell’Africa occidentale.
A Ritsona tutto è più ordinato, più negoziato. Non è una shanty town, una baraccopoli completamente informale. La maggioranza delle abitazioni sono container modificati dai propri abitanti, estesi, reinventati, riparati. Ci sono anche strutture in muratura, delle vere e proprie case. I cavi della corrente elettrica non sono aggrovigliati in mezzo alla strada e gli stessi container sono dotati di servizi igienici individuali. E poi è più grande, si sviluppa in maniera diversa. Non c’è la pista di Mexico, la strada centrale intorno a cui si sviluppa il ghetto, ma qualcosa di più esteso, sviluppato tanto in larghezza quanto in lunghezza, e con una parvenza di pianificazione alle spalle.
Più di una parvenza, in realtà. Il campo di Ritsona è solo uno dei dieci campi costruiti dal 2016 in poi nella regione dell’Attica, non troppo lontano da Atene. Uno tra i tanti costruiti in tutto il territorio nazionale, tra le isole e il continente. Questa, come le altre, è una struttura nata grazie alla collaborazione tra il governo greco e altre istituzioni internazionali, con lo scopo dichiarato di ospitare i richiedenti fino alla conclusione della domanda d’asilo, procedura che può durare più di due o tre anni. Strutture pensate per contenere decine di migliaia di persone, lontane dalla città, nascoste agli occhi della cittadinanza. La prima linea della frontiera interna dell’Unione Europea. E anche se dall’inizio della pandemia i flussi in entrata sono diminuiti drasticamente, anche grazie alla politica di pushback illegali avviata dal governo greco e supportata da Frontex, decine di migliaia di persone sono ancora bloccate in questa prima linea, da anni.
IL CORTEO
Ci ho messo un po’ per rendermi conto di questo semplice fatto. In Grecia l’accoglienza è questo: campi. Campi gestiti dalle stesse organizzazioni internazionali che sentiamo nominare ogni volta che esplode una nuova crisi umanitaria. Campi che non pensavo nemmeno esistessero in Europa, e che invece sono qui in Grecia, in Germania e in altri paesi europei, ormai da anni.
Solo per i soggetti considerati vulnerabili si possono trovare, in diverse città greche, progetti di housing, simili ai nostri Cas o agli Sprar, poi noti come Siproimi e ora come Sai, anche se il governo di Nea Dimokratia sta in ogni caso procedendo alla loro sistematica chiusura.
Eppure qui non si incontrano solo richiedenti asilo. Ci sono persone con i documenti ma che non sanno dove altro andare, magari dopo aver vissuto per anni in città. O ci sono persone che, dopo aver passato diciotto mesi nel campo di Amygdaleza, un’enorme struttura detentiva la cui funzione dovrebbe essere rimpatriare i clandestini, si sono rifugiate nell’anonimato del campo.
Nel frattempo un gruppo di camerunensi e congolesi, insieme a qualche curdo e qualche solidale, sta facendo degli striscioni. Si è creato un gruppetto, e si chiacchiera. Infine si parte in corteo, e si attraversa tutto il campo.
I cori sono in francese, in inglese. Libertà, libertà, viene ripetuto in quattro lingue diverse. Non posso non pensare ai presidi di fronte al Cpr di Corso Brunelleschi a Torino, al coro “Freedom, Hurriya, Libertà”.
Il corteo compie un giro completo del campo e si dirige verso i container degli uffici. La gente comincia a prenderli a calci, a battere sulle pareti. Urla la propria rabbia e la scarica sulle strutture in plastica e metallo. Sempre più gente accorre, richiamata dalla confusione, da questa esplosione di rabbia.
Poi il corteo riparte. Attraversa il cancello e occupa la strada provinciale antistante al campo. Prende parola uno dei richiedenti asilo, sulla trentina. Parla francese e si rivolge al corteo, composto in gran parte da camerunensi e congolesi. Spiega che da due mesi il governo ha bloccato il pocket money mensile, la cash card su cui venivano caricate le poche decine di euro con cui acquistare i beni di prima necessità. A settembre il governo ha deciso di prendersi carico di questa funzione, esonerando l’Unhcr, senza però aver individuato l’ente partner tramite cui esercitare la distribuzione dei fondi, stanziati direttamente dalla Commissione europea.
L’uomo spiega che da due mesi l’unico cibo che viene fornito a più di tremila persone consiste in una specie di pappetta preconfezionata che nemmeno i cani randagi provano a mangiare. Una donna estrae quindi da una borsa di plastica alcune confezioni di questo cibo. Di fronte ai telefonini le apre e le mette a terra. Un cane randagio viene fatto avvicinare al cibo. Annusa le razioni e gira i tacchi. Lo incitano di nuovo a mangiare, riportandolo di fronte alla confezione. Annusa ancora, annusa e se ne va.
Esplode la rabbia. Dei cassonetti vengono portati in mezzo alla strada provinciale. Ci appendono sopra gli striscioni. La strada è bloccata. Si crea presto una colonna di auto e camion. Alcuni, più coraggiosi, e meno saggi, provano a forzare. Non va come avevano sperato, e sono tutti costretti a fare inversione sgommando. La situazione rimane statica ma caotica per almeno un paio d’ore, finché a un certo punto arriva la polizia. Non l’antisommossa, non un reparto mobile, ma due uomini in borghese e uno in divisa. Vogliono mediare, promettono di far sapere ai propri superiori e al ministero le ragioni della protesta, e nello stupore generale convincono i rappresentanti a smobilitare la protesta.
L’ASSEMBLEA
Verso le 20:30 ci ritroviamo in assemblea. Fuori piove, fa troppo freddo per poter discutere, e quindi andiamo a sederci nell’unico edificio abbastanza capiente di tutto il campo. Entriamo in una specie di caffè, bar, ristorante, sala da biliardo, riscaldato e in muratura.
Quando creiamo il cerchio ci sono circa trenta persone, i rappresentanti delle diverse comunità. Sono curdi, afghani, arabi, camerunensi e congolesi. A loro ci aggiungiamo noi, una mezza dozzina di greci e altri solidali occidentali. Ci si chiede se aspettare ancora i rappresentanti della comunità somala, poi viene riferito che non arriveranno ma che comunque intendono partecipare alla protesta dell’indomani.
Ci sono anche delle donne, anche se in netta minoranza rispetto agli uomini. Ma sono due di loro a coordinare l’assemblea. Una giovanissima ragazza afghana prende la parola per prima. Indossa un velo bianco e quando parla, in farsi o in inglese, le voci maschili nella sala tacciono. Ha diciannove anni, ha passato la sua adolescenza tra questo campo e il campo di Moria, a Lesbo. Alla sua sinistra siede un’altra ragazza. Tradurrà in francese e darà una mano a coordinare, prendendo appunti instancabilmente per le prossime due ore. Alla sua destra un uomo, che tradurrà in arabo.
Nel frattempo il numero dei partecipanti è aumentato. Adesso siamo quaranta in questo caffè, seduti intorno a un biliardo. Sulle pareti un tappeto rosso con motivi geometrici copre una finestra. A fianco, in caratteri latini, è scritto sul muro il nome del caffè. Ma c’è anche un condizionatore, diverse scritte in arabo. C’è perfino un albero di natale un po’ improvvisato, diverse shisha, un kebab e un frigo con bevande varie. La televisione è accesa su un canale arabo mentre da fuori comincia a entrare il fumo della carne alla griglia.
La gente continua ad arrivare. Mi dice un compagno che è forse da più di un anno che non si faceva un incontro di queste dimensioni. Si discute della protesta di domani. Un’azione che non metta a rischio la posizione legale di nessuno tanto per cominciare. E che si concentri sulla questione del cibo e della cash card, che stando alle promesse del responsabile del campo doveva essere riattivata a inizio mese. L’idea è di scendere in strada e organizzare lo sciopero della fame per tutto il campo finché le richieste non saranno accolte.
Per tradurre in tutte le lingue ci si mette parecchio tempo. Si succedono almeno quattro traduzioni simultanee. La ragazza afghana parla in farsi e settanta uomini arrivati da tutto il pianeta la ascoltano a orecchie tese, traducendo le sue parole in quattro lingue diverse.
C’è tutta la miseria e la speranza del mondo in questa stanza. E penso alla lotta alle frontiere anche a Torino, e all’assemblea che in questo stesso momento si sta tenendo al Neruda contro Frontex.
L’assemblea comincia. Il primo a parlare è un uomo sulla trentina, dalla voce forte ma ferma. Lo stesso che aveva spiegato le ragioni della protesta qualche ora prima. Parla in francese, e parla a nome di camerunensi e congolesi. Una minoranza, tra i richiedenti asilo presenti nel campo, ma una minoranza coesa e combattiva, che la mattina ha preso l’iniziativa e creato le condizioni per questa assemblea.
L’uomo propone quattro punti su cui impostare la protesta di domani:
- Venti persone sono arrivate al campo da due settimane e non sono ancora state registrate.
- Il responsabile del campo aveva promesso che la cash card sarebbe tornata attiva entro il 10 dicembre.
- La procedura di asilo di centinaia di persone è bloccata.
- I tecnici che si occupano delle infrastrutture del campo non si stanno presentando da settimane.
Il rappresentante della comunità araba propone la creazione di un gruppo di discussione permanente sulle problematiche comuni, che coinvolga i rappresentanti di tutte le comunità anche dopo l’assemblea di questa sera, dove per la prima volta dopo parecchio tempo i rappresentanti delle comunità si sono riuniti.
Viene anche proposto che le diverse comunità mettano per iscritto le proprie proposte, ma i rappresentanti del Camerun rispondono che questo rischia di essere divisivo, e che invece sarebbe meglio concentrarsi sulle questioni comuni a tutti i rifugiati.
Si traduce dal francese all’inglese, dall’inglese al farsi, dal farsi all’arabo, e nel frattempo la puzza della carne sulla griglia fuori dal caffè riempie la stanza. Viene ribadita la necessità di concentrarsi sulla questione della cash card. Viene proposto quindi di bloccare i camion del cibo. E fare lo sciopero della fame.
Torno a pensare a Torino. Sono le stesse pratiche che avevo visto usare dai detenuti dei Cpr italiani. Ma la dinamica dell’assemblea, più che a Torino, mi riporta alle assemblee dei braccianti nei ghetti del foggiano. Solo che qui le traduzioni sono moltiplicate per tre. Una nuova proposta: scrivere una lettera da consegnare alle autorità perché arrivi al ministero, con una lista precisa di richieste e dando priorità alla questione della cash card.
Il rappresentante del Camerun si infiamma, sostiene che tutti e quattro i punti sono importanti, e che rimanere al campo senza essere stati registrati, senza acqua ed elettricità, senza sapere quando la procedura d’asilo si concluderà, non può essere considerato secondario. A un certo punto l’assemblea si interrompe. Un gruppo di uomini, prevalentemente afghani, lascia la stanza. Al momento non capisco, e immagino ci siano dinamiche che non riesco a cogliere. Ma un compagno mi spiega che il gruppo si è allontanato solo per avere una breve discussione interna.
Il tempo di fumare una sigaretta e l’assemblea riprende. Va avanti ormai da un’ora e mezza. Prende parola un uomo sulla cinquantina, afghano. Parla più a lungo di chiunque altro, e viene ascoltato in silenzio. Dopo di lui prende la parola un uomo molto anziano. Si alza in piedi, reggendosi al bastone. Indossa una kefiah rossa e bianca. Il suo intervento dura quasi quanto il precedente. Sostengono la proposta di procedere al blocco del cibo. Viene quindi deciso che si terrà un’ulteriore assemblea dopo la protesta, con i rappresentanti delle comunità, per decidere come portare avanti la lotta.
Eppure l’assemblea non si conclude. C’è una tensione, forse dettata dall’esitazione, da parte delle altre comunità, a seguire una protesta capeggiata in primo luogo dalle comunità africane. Ed è allora che prende la parola un ragazzo molto giovane. Parla a nome degli africani presenti, e conosce bene i propri interlocutori. Il suo obiettivo è portare a casa il risultato, l’unità nella lotta, e per farlo offre ai rappresentanti delle altre comunità quanto c’è di più prezioso: il riconoscimento.
Ringrazia gli anziani, arabi e afghani, per essere qui con loro. Ricorda l’importanza del rispetto. Ricorda la saggezza di cui essi sono portatori. E conclude, ribadendo che per loro è un onore averli qui, riconoscendo in essi i propri anziani, le proprie guide. Li ringrazia, e li applaude, e parte l’applauso di tutti, e riparte quando l’intervento è tradotto. Così si conclude l’assemblea, che ormai va avanti da più di due ore, tra gli applausi e una foto di gruppo.
LA PROTESTA
La mattina fa molto freddo. Verso le 7 prendo un tè in uno dei caffè aperti, e aspetto. Vicino a me qualche dozzina di ragazze e ragazzi aspettano di salire sulla corriera che li porterà a scuola. Gli zaini pesanti, ma un umore più allegro di quanto mi aspettassi. Gli piace andare a scuola, mi dice in inglese uno dei ragazzini.
Poco dopo passa un gruppo di lavoratori. Scarpe, pantaloni e vestiti sporchi di fango, camminano rapidamente tenendo in mano un caffè. Ripenso ai braccianti nel foggiano, alle loro forme di lotta. Allo sciopero. E mi chiedo quanti, tra gli abitanti del campo, lavorino nelle campagne circostanti. Non sono usciti in molti oggi, ma forse sono io a essere arrivato tardi, la maggior parte di loro si era già avviata al lavoro prima che io aprissi gli occhi.
Sono le 7:30 quando i primi abitanti cominciano a raggrupparsi di fronte al cancello. Pioviggina, e l’umidità penetra nelle ossa. Accendono un fuoco con dei cartoni e dei pezzi di legno. Si crea un piccolo cerchio. Verso le 8 sono una quarantina, tra di loro riconosco molte facce della sera precedente.
Presto le tensioni riemergono: non c’è accordo sulla chiusura totale del campo. C’è chi vuole bloccare solo il camion e chi vuole bloccare l’accesso a tutto il personale. A questi viene ribattuto che bloccando l’ingresso al personale salteranno tutti gli appuntamenti previsti per le procedure di asilo e che non si era parlato di niente di tutto ciò nell’assemblea.
Il presidio continua a crescere e i cancelli vengono chiusi. Fuori dalle mura una donna getta sull’asfalto dozzine di razioni di cibo. Quando arriva il camion dei rifornimenti trova il cancello chiuso. Le confezioni esplodono sotto gli pneumatici. Urla, braccia alzate. Senza esitazione, l’autista fa retromarcia e riparte, se ne va.
La protesta dura un’ora o poco più. Una delegazione dei rappresentanti delle comunità incontra i responsabili del campo, poco fuori dalle mura. Promettono, ancora una volta, che la cash card sarà di nuovo operativa entro la fine del mese. C’è chi è soddisfatto, c’è chi avrebbe voluto che la protesta non si fermasse oggi.
Un po’ alla volta torna la calma nel campo, le persone tornano alla propria routine. Per oggi. (erasmo sossich)