da: Nativa.cat
La mancanza di un limite al mercato degli affitti, il minuscolo numero di case popolari disponibili e le politiche pubbliche mirate ad attrarre fondi di investimento, hanno steso un tappeto rosso alle operazioni finanziarie e immobiliari dirette dai grandi proprietari del suolo e dai capitalisti che speculano su di esso. […] In Spagna non ci sono state mai politiche per la casa, ma solo politiche economiche che mirano a convertire il territorio in merce. I cicli di auge dell’economia spagnola si sono basati sempre sulle bolle del mercato degli alloggi che servivano a mantenere alta la circolazione del capitale e il suo tasso di crescita. Queste bolle non sono il risultato di leggi naturali, ma di leggi statali. La perpetuazione del potere della grande proprietà, il ruolo del capitale privato nella pianificazione di politiche pubbliche, i privilegi concessi ai nuovi attori finanziari, spiegano il problema della casa. Il resto dell’ingranaggio è: l’attacco continuo ai salari, l’indebitamento e la società del consumo. La storia continua ed eccoci qui, in pieno ciclo Blackstone – il più grande fondo speculativo d’Europa.
Questa è la situazione. E non è per scelta ma per obbligo che continuiamo a cercare case a prezzi accessibili in altre parti della città. […] Ma i nostri spostamenti hanno anche impatti sociali e urbani. Sentiamo spesso dire che a gentrificare i quartieri sarebbero persone con lavori precari e intermittenti nell’ambito culturale, perché stabiliscono lì i loro laboratori o le loro attività. “La tua street art mi fa salire l’affitto”, dice un graffito. E mannaggia a quel negozio di dolcetti che fa scappare gli abitanti. È bello quello spazio che recupera la storia del quartiere, ma anche lui lo gentrifica. Insomma, chi più e chi meno, sembra che gentrifichino un po’ tutti.
Qualunque azione che aumenti il benessere o l’autenticità di un quartiere può peggiorare le condizioni di vita di chi non riesce a reggere l’aumento dei prezzi. […] Non sono pochi i quartieri o i municipi periferici delle grandi città dove la cultura è stata usata come pretesto per lo sviluppo urbano. Non è una cosa nuova: lo vediamo ora a Carabanchel (Madrid) o a Hospitalet (Barcellona), che secondo il giornale La Vanguardia cerca di imitare Brooklyn e diventare una calamita per il settore culturale. Se gli artisti assumono il loro ruolo funzionale in questi progetti, sono segnalati come complici della speculazione. La classe media impoverita che si sposta dal centro alla periferia, sarebbe anche lei colpevole.
Ma è vero? E a cosa serve questo tipo di analisi? Perché demonizzare questi gruppi sociali? L’insistenza sul capitale simbolico finisce per normalizzare il capitale economico. Ci preoccupano di più i laboratori degli artisti che “parassitano il quartiere” piuttosto che la distribuzione della proprietà del terreno e i suoi agenti speculatori? Se la rendita urbana fosse sottoposta al controllo e alla pianificazione collettiva, l’incremento della distinzione o del benessere non sarebbe un problema. Al contrario. Il prezzo sale per la concentrazione della proprietà privata del suolo, per la speculazione immobiliare e per le garanzie che dà lo stato al capitale finanziario. Il resto sono solo conseguenze.
C’è anche qualcosa di più complesso che opera dietro tutto questo. Le strategie che usano la cultura come pretesto per lo sviluppo urbano possono sedurre un ampio spettro della popolazione. Non perché tutti preferiscano una vita più spirituale o un quartiere circondato da studi di coworking; ma perché queste politiche contengono una promessa di redistribuzione. Possono addirittura convincere quelli che sono obbligati a trasferirsi che in realtà lo fanno per il bene del quartiere.
La promessa di ridistribuzione come forma di governo
La classe non è data: è prodotta con la pratica. Ma l’appartenenza e il potere di classe non si costruiscono solo con processi di emancipazione organizzati da chi ha meno risorse; essi possono essere anche pianificati dall’alto. Ogni regime di accumulazione ha bisogno di produrre forme di integrazione. Per dirlo più facilmente, l’accaparramento urbanistico funziona come la lotteria: ha successo solo se riesce a convincere molta gente che ci saranno premi per tutti. Si tratta in fondo di produrre unità d’interessi tra segmenti sociali che hanno origini, obiettivi e rendite molto diverse. Tutte le promesse materiali o simboliche della speculazione si basano sull’idea che l’apertura dei mercati del suolo produrrà dei benefici collettivi.
Strategie urbane come il distretto culturale dell’Hospitalet cercano di unificare gli interessi delle élite finanziarie globali, gente molto ricca e di mentalità progressista, con gli artisti che hanno stili di vita apparentemente borghesi, ma stipendi più bassi di un operaio di fabbrica. Cercano anche di sedurre gli abitanti dei quartieri che hanno vite precarie e che vogliono difendere gli interessi del loro territorio o i vecchi negozi che provano ad adattarsi ai bisogni dei nuovi arrivati. A questo miscuglio si uniscono i piccoli proprietari che provano ad assicurare la propria rendita immobiliare. Sembra una maionese impossibile da far quagliare, ma a volte riesce. […] L’importante è che tutto questo cocktail sociale può integrarsi e diventare parte di un processo più grande, in cui ognuno gestisce le proprie “contraddizioni”, ma crede di ricevere risposte ai propri bisogni individuali. Questa egemonia diluisce i conflitti tra gli interessi capitalisti e i bisogni sociali del quartiere.
Ma il discorso e la seduzione non sono tutto. Il capitale ha bisogno di adattare la geografia ai suoi interessi e di usare il discorso creativo e culturale come collante. Per assicurarsi rendite di monopolio c’è bisogno di politiche pubbliche che privilegino una certa forma di proprietà del suolo, di politiche che migliorino il territorio e di politiche di espropriazione ed espulsione degli abitanti. A questo si aggiungono i patti tra il capitale locale e quello globale, i programmi urbani speculativi per attrarre investitori, le alleanze pubblico-private basate sul capitale fisso (del tipo: infrastrutture per la mobilità, trasporti etc.) i cui prezzi sono pagati dalla collettività, ma che diventano rendite per il settore privato. Bisogna anche rispondere ad altre richieste per garantire consensi “legittimi” a scala locale. C’è chi riesce ad affittare un laboratorio a basso prezzo per produrre la sua cultura o per vendere i suoi servizi. Altri ricevono degli incentivi fiscali per investire. Altri ancora mettono i loro appartamenti su Airbnb. Altri ancora riadattano al circuito finanziario il loro vecchio terreno industriale. Altri realizzano un’“agenda di politiche pubbliche per una nuova economia” e ne ricavano voti. Si può anche permettere la cessione di alcuni spazi comunitari per salvaguardare il patrimonio popolare del quartiere. Ma non è redistribuzione e non ha nulla di equo; è il midollo spinale del capitalismo, far sembrare giusto e democratico lo sfruttamento.
In questo processo, come sempre, ci sono gli esclusi: quei collettivi e quelle persone che non sono invitati al banchetto istituzionale né ai processi partecipativi e che sono solo mano d’opera a basso prezzo, obbligata a litigare per le molliche, per un posto precario nel settore terziario, cittadinanza considerata di seconda categoria, oppure entità, associazioni e sindacati che scelgono di non stare al gioco. Ecco come funziona la strategia di governo neoliberale. Non è un processo di decisione tra uguali, ma una forma di governo che opera a partire da una gerarchia nell’ombra, che viene però presentata come plurale e democratica. Se ne rimani fuori, è perché non credi nella tua città.
Allearsi con il nemico disponibile
Per farla finita con questi laboratori del mercato del suolo, con questi discorsi e queste promesse, dobbiamo prendere delle posizioni strane e spurie. Posizioni che non appaiono sui manuali e che sono il prodotto della pratica politica di ogni territorio. La questione principale, però, per ogni organizzazione o movimento che aspiri a cambiare le cose, è scegliere il nemico adatto – che non coincide sempre con quello più disponibile. Tra tutti gli attori e interessi coinvolti in questa spoliazione del territorio, perché prendiamo come controparte la “classe creativa” o la confusa “classe media”? Non sarebbe più utile entrare in conflitto con la gerarchia di potere che opera nell’ombra? Per produrre unità di interessi dal basso, non sarebbe strategia migliore iniziare a svelare le alleanze tra attori politici, economici e finanziari? Per colpire più forte le banche, i costruttori, i fondi speculativi, non avremmo bisogno, semmai, di un’analisi capace di tenere insieme gruppi sociali diversi?
La merce principale del circuito di accumulazione sul territorio non è un bene o un servizio culturale, ma lo spazio e la produzione dello spazio. Ma chi detiene la proprietà dello spazio e quali sono gli agenti speculatori che vi operano? Sono i capitalisti locali? Famiglie ancestrali? Capitalisti globali? La chiesa? E quali sono le imprese immobiliari attratte dai piani urbanistici? Quali fondi speculativi li conducono? Si aumenterà il numero di alloggi privati? Chi è coinvolto, come creditore o come debitore, in queste operazioni immobiliari? In generale, abbiamo pochissime informazioni su tutto questo. Ci trasciniamo dietro anche un’enorme carenza nella produzione di alleanze eterogenee, sia sociali che territoriali.
Negli anni Sessanta, Ruth Glass coniò il termine “gentrificazione” per descrivere le diseguaglianze di classe e le ingiustizie create dalle politiche capitaliste di apertura del mercato del suolo urbano. Le cose sono peggiorate sempre di più e ora si parla di gentrificazione per indicare ogni sorta di colpevoli. Poco tempo fa la casa editrice Katakrack ha publicato un saggio di Lisa Vollmer che riprende il senso politico originario del termine, analizzando con pugno attivista la gentrificazione e le alleanze necessarie per produrre un cambio. Vollmer segnala anche che in città come Amburgo diversi gruppi di artisti si sono organizzati per protestare contro l’espulsione di gente con meno risorse. Questa unità di interessi di fronte al potere finanziario e immobiliare tiene insieme capacità diverse per svelare le false promesse che seducono una classe che soggettivamente si sente classe media, ma che oggettivamente è sfruttata. A Berlino il movimento Expropiate DW&Co, grazie a un grande sostegno popolare, ha promosso un referendum per votare l’espropriazione di alloggi a imprese che possiedano oltre tremila case. Il risultato di una lotta di oltre quindici anni che indicava il vero nemico, aggregando al movimento le classi medie. Il progetto di legge sarà pronto il 17 ottobre ed entrerà in vigore a gennaio 2010.
Mentre le dinamiche di rivalorizzazione urbana e delle nuove “mani sulla città” creano un’egemonia ampia con la menzogna della redistribuzione attraverso il mercato, noi non dobbiamo cadere nella tentazione di segnalare “i gentrificatori” come il peccato originale. Quando non saranno funzionali agli interessi del capitale, saranno espulsi anche loro. Il vero antagonismo è di fronte alle alleanze di classe capitaliste che sfruttano il territorio e vogliono saccheggiare i nostri quartieri. La Sareb ha appena venduto a un fondo immobiliare del Texas oltre mille e cinquecento alloggi, che come sappiamo sono stati prodotti con denaro pubblico. L’ONU ha accusato la Blackstone, che oggi è il principale proprietario sul mercato immobiliare in Spagna, di star alimentando la crisi degli alloggi. Fortunatamente, proteste organizzate come Raval VS Blackstone o il movimento per la casa a Vallecas (Madrid) stanno gettando luce su questi mastodonti finanziari senza volto e ai loro sbirri locali. Seguire la pista del denaro è seguire la pista del potere. Dimentichiamoci per un momento la pista dei negozi di dolcetti. (rubén martínez moreno – la hidra cooperativa / traduzione di stefano portelli)