Non ho mai conosciuto padre Paolo Dall’Oglio, pur avendo soggiornato e pregato insieme ai membri della sua comunità e ad altri avventori come me nel monastero di San Mosè, Deir Mar Musa in arabo, erto sulla cima di una montagna del deserto siriano, ottanta chilometri a nord di Damasco. Questo spazio profondamente spirituale e aperto verso l’esterno è stata l’impresa umana in cui il padre gesuita ha speso gli ultimi trent’anni della sua vita. Nel 1982, giunto per un ritiro tra le mura cadenti di un antico rifugio di monaci cristiani siriani, padre Paolo ha deciso di assecondare la sua visione: costruire lì un luogo di dialogo religioso, di studio, incontro e raccoglimento.
Da quando nel 1991 Mar Musa è diventata una stabile comunità di monaci e monache, la missione del monastero si è concretizzata in tre direzioni principali. Prima di tutto la riscoperta del significato assoluto e non strumentale della vita spirituale, della vita di preghiera, intesa come riflessione sul mondo in una prospettiva unitaria, capace di abbracciare la totalità dell’uomo. La seconda è praticare una vita in armonia con i principi evangelici di semplicità e giustizia, riscoprendo il significato dell’attività manuale e il valore del corpo. Fondamentale nell’esperienza del monastero è poi la pratica dell’ospitalità gratuita verso chiunque salga gli innumerevoli gradini digradanti dal pesante portone d’ingresso. Proprio attraverso l’inclusione delle differenze accolte nella sacralità del monastero, si è formato uno spazio per il confronto tra islam e cristianesimo nel reciproco riconoscimento, e nella dimensione dell’ecumenicità di tutte le chiese. Oltre al radicamento nella realtà siriana e alla costituzione di una vasta biblioteca che approfondisce l’analisi teologica, storica e sociale del fenomeno religioso, Mar Musa è la viva realtà di una ricerca di senso che non si ghettizza né assolutizza. Nella lentezza dei suoi riti e nel fruscio dei venti del deserto, resta a osservare le valli degli uomini, costruendo ponti con il sacro e fra le culture.
Vi giunsi di notte, con un taxi che arrancava sulle strade di terra battuta. Arrivato a metà della lunga scalinata, vidi con sconforto che il taxi giù in basso se la batteva nonostante la mia richiesta di attendere finché qualcuno non mi avesse lasciato entrare. Ero solo, nel buio tutt’intorno e mi aggrappai con speranza alle candele alte sulle mura. Il portone era aperto, e vi era silenzio mosso da un leggero brusio. Guardingo mi aggirai nei corridoi di pietra, fino a una porta con una montagna di scarpe accumulate sull’uscio. Scostando la tenda pesante, entrai nell’atmosfera soffusa della cappella. Un numeroso e variegato gruppo era assorto nel silenzio della meditazione, sparso sui tappeti fin negli angoli più scuri. Presi parte all’accolita, lasciandomi andare a quel buco di universo in cui tutti sembravano rapiti. Un vecchio sacerdote con la barba lunga cominciò a cantilenare frasi spezzate in arabo. Qualcuno rispondeva, mentre altri, a occhi chiusi, dondolavano leggermente come accompagnati dalla nenia. Non so quanto durò, ma alla fine vennero accese altre candele e insieme si passò a leggere dei passi dalla bibbia. Me ne arrivò tra le mani una in italiano, e ve n’erano altre in tutte le lingue che mi venivano in mente, mentre la lettura a voce era officiata in arabo. Dopo la funzione, uscimmo nella fredda serata del cortile del monastero, dove ci conoscemmo, monaci, gente di passaggio, asceti occidentali stabilitisi qui e musulmani dei dintorni, prima di convenire nel refettorio e consumare un pasto abbondante e vegetariano.
Rimasi a Mar Musa tre giorni. Scoprii che la quotidianità era scandita da messe in arabo e inglese e da momenti di meditazione, mentre il resto della giornata veniva dedicato ai lavori di ristrutturazione e di gestione. Mi venne dato un letto, delle coperte, e l’accettazione totale della mia presenza curiosa nonché delle mie pressanti domande. Padre Paolo, venni a sapere, era momentaneamente assente, in viaggio in Norvegia dove andava raccontando di Mar Musa agli europei. Padre Peter mi introdusse alle pratiche della comunità, e gli feci compagnia nell’accogliere una scolaresca agitata di Damasco portata in visita dal professore. C’era sempre qualche lavoro da fare, e in cambio dell’ospitalità tutti erano pronti a dare una mano. Quando partii, sapevo di aver attraversato un mondo sospeso tra antichissime lontananze e un futuro possibile, la realizzazione di un modo rispettoso di stare l’uno accanto all’altro.
Oggi, tutto questo rischia di sparire, travolto dall’ondata di repressione in atto nella Siria in subbuglio degli ultimi tempi. La primavera araba ha trovato in Siria un muro di contenimento fatto di servizi segreti e uso indiscriminato della forza da parte del regime. La transizione democratica invocata da marce spontanee e pacifiche di cittadini di diverse etnie e religioni, consuma le sue energie offrendo i corpi ai proiettili dei soldati e facendo la conta dei morti per la libertà. Le notizie verificabili dal paese sono sempre meno, spesso video sfocati di funerali e sparatorie, contrabbandati al confine turco-siriano in mazzi di schede usb nascosti nelle mutande. Molti soldati si rifiutano di sparare sui propri concittadini, e cadono inermi sotto i colpi degli ex compagni d’arme. Il presidente Assad invoca una pacificazione di mitra e manganelli, additando le potenze straniere come causa delle rivolte e biasimando i paesi arabi che mettono in pratica pesanti sanzioni contro di lui. Nessuno è al sicuro, chiunque può essere arrestato dal Mukhabarat con l’accusa di fomentare gli scontri, può finire in prigione e assaggiare le torture ormai acclamate dei funzionari di regime. Oppure, come padre Paolo, gli può essere intimato di lasciare la Siria e non farvi più ritorno. «C’è un desiderio dello stato siriano – ha spiegato telefonicamente a Popoli.info – di controllare in modo più diretto la comunicazione fuori dal paese di intellettuali indipendenti». E per lui, che in trent’anni di attività sociale e spirituale ha sempre difeso i termini del confronto, lo stato siriano prova ormai solo un crescente fastidio.
Quello che padre Paolo e Mar Musa significano per la Siria è un patrimonio inestimabile di apertura e ricerca, sia spirituale che storica. Nel momento in cui il rischio di Assad è vedersi crollare la terra sotto i piedi per le richieste di avere voce da parte del popolo, coloro che della parola condivisa, senza pretesa di verità assoluta, hanno fatto pratica quotidiana, sono nemici e nient’altro. Sarebbe in realtà questo il momento di farsi sentire in Italia, e nel mondo intero, non per invocare bombardamenti, ma per dare supporto a chi è in fuga dalla Siria e a chi coraggiosamente vi rimane. La complessità del caso siriano abbraccia tutto il medio oriente, e nessuna decisione unilaterale dei paesi della Nato può stabilire una qualche pace. A meno che non sia da considerarsi pace lo sprofondare da un tentativo di rivoluzione, agli esiti tragici di una guerra civile. (salvatore de rosa)
Leggi qui un’intervista a padre Paolo Dall’Oglio sull’attuale situazione in Siria.