L’articolo che segue è la versione integrale di un testo scritto dallo stesso autore e pubblicato su Repubblica Napoli lo scorso 24 dicembre.
“Sia maledetto chi si salva e tace”
(scritta sui muri di un campo di prigionia)
Ci sono eventi che dovrebbero di forza entrare a fare parte della nostra storia come segni indelebili o come ferite mai rimarginate del tutto. Invece, per rovescio, finiscono per esaurirsi nei margini dei ricordi personali e delle pagine di cronaca.
Poco più di venti anni fa, precisamente nella notte tra il 15 e il 16 dicembre del 2001, diciannove persone (undici uomini e otto donne) morirono tra le fiamme dell’incendio che devastò la Struttura intermedia residenziale (SIR) per persone “abbisognevoli di sorveglianza e assistenza sanitaria” ubicata in località Murgi, a circa due chilometri da San Gregorio Magno (Salerno). Dalle fiamme si salvarono solo otto persone. La Sir altro non era che un vecchio container pre-fabbricato donato dalla Francia all’Italia dopo il sisma del 1980, per diventare un centro sociale per anziani, riadattato nel 1997 come struttura di accoglienza per “disabili psichici” a seguito della dismissione degli ospedali psichiatrici civili. La chiusura dei manicomi per molti pazienti non si era infatti tradotta in “libertà” ma nel trasferimento in strutture di piccole o medie dimensioni ancora imbevute di quella cultura manicomiale che non andava oltre un orizzonte di porte e di sbarre.
All’epoca, il “rogo” fece giustamente grande impressione nell’opinione pubblica, turbata dalla tragica fine di persone che non erano riuscite a sfuggire alle fiamme. Le storie di queste vite nascoste e abbandonate vennero alla luce per frammenti sulla stampa e in qualche caso si fece fatica persino a dare un nome o a trovare le famiglie delle vittime. Tanto fu lo sdegno pubblico, che una commissione parlamentare di inchiesta del Senato effettuò indagini e audizioni per oltre due anni in autonomia rispetto all’inchiesta della magistratura. Anche la Regione, guidata all’epoca dal presidente Bassolino, che ebbe dure parole di condanna dell’episodio, istituì una commissione di inchiesta presieduta da Franco Rotelli. In particolare, colpì l’opinione pubblica la notizia che si trattava di un rischio annunciato, in quanto da tempo era nota l’inadeguatezza di quella struttura. Infatti, era in corso un lungo braccio di ferro tra gli organismi di vigilanza regionali che evidenziavano le diffuse criticità tra cui l’assenza di impianti antincendio e dall’altro lato Comune e Asl, restii ad adeguarsi alle prescrizioni regionali.
Il 29 gennaio 2002 la commissione regionale relazionò evidenziando che “la struttura non era dotata degli standard di sicurezza antincendio previsti dalle norme in vigore, mancava del certificato di prevenzione incendi e che non vi erano tutte le certificazioni previste per le strutture sanitarie sul piano assistenziale; evidenziò che la struttura era lontana dal centro abitato, sovraffollata e con promiscuità di pazienti appartenenti alle tre fasce. Sottolineò infine sia la carenza di personale, specialmente infermieristico, che la non specializzazione dello stesso nel ramo psichiatrico, trattandosi di infermieri assunti provvisoriamente”. Successivamente Sergio Piro, che della commissione era componente, ebbe a segnalare “che, se la struttura fosse stata nell’abitato, la popolazione avrebbe dato un immediato soccorso e avrebbe probabilmente salvato molte altre persone; senza sovraffollamento vi sarebbe stato un minor numero di morti. Anche prima del tragico rogo, i pazienti vivevano in una comunità isolata come un manicomio e potevano avere il vantaggio della comunità ma non quello, terapeuticamente essenziale, del rapporto diretto e personalizzato con il territorio”. Si sarebbe dovuto offrire a quelle persone “una casa, l’inserimento in un abitato, un modo per rifarsi una vita autonoma – scriveva Piro – e invece furono dati loro una struttura arrangiaticcia e distante dall’ abitato, isolamento, esclusione dalla popolazione, mancanza di reinserimento sociale, morte atroce”.
La commissione parlamentare di inchiesta presentò la sua relazione conclusiva nel 2004 e giunse a considerazioni analoghe evidenziando in particolare come un quadro normativo incerto e frammentato avesse favorito la situazione di impasse istituzionale e come dovesse ancora concludersi il passaggio che aveva portato dalla chiusura dei manicomi alla assistenza residenziale territoriale. La vicenda processuale, come triste consuetudine nel nostro paese, durò molti anni e terminò con alcune condanne minori solo nel 2015. L’inchiesta non riuscì ad appurare se i pazienti fossero rimasti imprigionati nella struttura perché sorpresi nel sonno o perché chiusi a chiave o legati ai letti con legacci e fascette di contenzione, perché le fiamme avevano distrutto ogni cosa e reso impossibili i rilievi della scientifica.
Oggi che anche l’ultimo dei sopravvissuti a quella tragedia è da poco scomparso, cosa resta di quel rogo, oltre il ricordo sbiadito di quelle vittime senza storia o giustizia? Resta forse una lezione più che mai utile da ricordare, in una fase in cui – come evidenzia l’ultima relazione del Garante nazionale delle persone prive della libertà personale – sono decine di migliaia le persone “fragili” o con “vulnerabilità sociale” ospitate per anni in strutture residenziali che arrivano fino a cinquanta posti. E la lezione principale è che chiudere i manicomi non significa spostare le persone da un contenitore grande a uno più piccolo, ma significa, sopra ogni altra cosa, superare tutti quei dispositivi e quei luoghi che hanno come sola funzione quella di nascondere, isolare e custodire invece di restituire dignità, inclusione e autonomia.
I morti di San Gregorio Magno furono in primo luogo vittime dei residui mai sopiti della cultura manicomiale, che preferisce rinchiudere piuttosto che includere. Questa era la lezione di venti anni fa, questa la lezione per oggi. Possiamo dire di averla davvero imparata? (dario stefano dell’aquila)