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10 Settembre 2018

La voce di Maria, il rione De Gasperi e le politiche abitative a Napoli

Emiliano Esposito
(disegno di valentina galluccio)
(disegno di valentina galluccio)

È seduta in cucina, con la schiena appoggiata al muro e il braccio sinistro sul tavolo. Davanti un piatto con dei pomodori dentro e del pane vicino. Maria si alza e si allunga verso il piano cottura per versarsi dell’acqua. Il sole che filtra dalla persiana le disegna dei cerchi di luce sul volto. Beve. Si asciuga il sudore dalla fronte con un panno bianco, che solitamente quando è estate porta sulla nuca, a coprirsela. Si risiede. Si gira verso la porta d’ingresso e saluta sua figlia. Maria e la figlia sono dirimpettaie di pianerottolo, all’ultimo piano della scala 23 del rione De Gasperi a Ponticelli.

Fa un caldo afoso, tipico del mese di luglio a Napoli. L’umidità si avverte ancora di più in casa. Maria abita in un palazzo di edilizia popolare in cemento armato, uno dei primi costruiti a Napoli nel dopoguerra. Infiltrazioni e microcrolli non rendono giustizia all’età dei fabbricati del rione. Sembrano di fabbricazione più recente di quello che non siano. Eppure hanno più di sessanta anni. Di anni Maria ne ha quasi ottanta, la maggior parte dei quali li ha trascorsi nel rione. Ci si è trasferita nei primi anni Cinquanta, lasciando uno dei sessantamila vani del centro città distrutti dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Fu quello il periodo in cui sotto la morsa dell’emergenza casa le periferie napoletane, gli ex casali rurali di Napoli, furono inondati di edilizia popolare. Tra il finire della guerra e i primi anni Sessanta venne edificata più della metà degli alloggi popolari costruiti fino a oggi a Napoli. Le intenzioni erano quelle di creare dei quartieri autosufficienti da aggiungersi ai tessuti storici dei nuclei rurali. Si dimenticarono uno dei fattori più importanti per la costruzione di un tessuto urbano poroso, vivo. La permeabilità tra i nuovi interventi e gli insediamenti preesistenti. Nacquero così rioni di edilizia popolare chiusi in sé stessi. Alla crescita degli ex casali rurali, le attuali periferie, mancò un altro elemento fondamentale. I collegamenti con il centro città, dal quale la maggior parte dei residenti in periferia dipende sia in termini economici che sociali. Gli ex casali si trasformarono in territori urbani molto frammentati al proprio interno e isolati dal resto della città, in cui la concentrazione di edilizia pubblica fece di questi luoghi sacche di disagio economico. A ciò comincio ad aggiungersi un crescente stato di abbandono e di scarsa manutenzione sia degli edifici che degli spazi pubblici di tali rioni. Ma si sa. Se l’unica fonte di ingresso economico per la manutenzione del patrimonio abitativo pubblico sono i canoni pagati dai beneficiari delle case popolari, è ovvio aspettarsi problemi di sostenibilità economica. Fino agli inizi degli anni Novanta, infatti, i fondi pubblici per l’edilizia popolare servivano solo alla costruzione di nuove case, scarsissima attenzione veniva riservata alla riqualificazione del patrimonio esistente.

Da questo punto di vista il 1979 fu l’anno della speranza per Napoli. La giunta comunista sotto la guida di Valenzi e del team di urbanistica del Comune partorì il Piano delle periferie. Non più colate di cemento per i quartieri periferici, ma un piano di rilancio economico e sociale che non puntasse solamente alla costruzione di nuove case per risolvere le criticità. Purtroppo il terremoto dell’autunno dello stesso anno non diede ragione a tale intuizione. Una nuova emergenza abitativa fece accantonare il Piano che non morì del tutto, lasciando traccia di sé negli studi preparatori all’attuale piano regolatore. Il dibattito sulle periferie tornò al centro dell’attenzione di politici e accademici a metà degli anni Novanta, quando alla stesura del PRG la giunta accompagnò la stesura dei Programmi di recupero urbano (PRU). Si trattava ancora una volta di un intervento per una riqualificazione economica, urbana e sociale di alcuni pezzi di città. Uno di questi era il quartiere di Ponticelli. E, come una matrioska, al suo interno il rione De Gasperi era considerato un tassello imprescindibile per il successo della riqualificazione. Occupazioni abusive, abbandono degli spazi pubblici, fatiscenza degli edifici, isolamento urbano. Erano queste le sfide dell’intervento previsto dal PRU per il rione De Gasperi. Abbattere totalmente il rione, ricostruirlo e dotarlo di attività commerciali e giardini pubblici che fungessero da connettori al resto del tessuto urbano.

Dal 1997 a oggi nessun cantiere è stato però allestito, nonostante i trasferimenti preliminari degli abitanti del rione siano cominciati. I dubbi dilagano nelle voci di chi è rimasto nel vecchio De Gasperi. Come in quella di Maria. Una voce rauca e bassa che racconta come quei quattro giorni passati in carcere per associazione mafiosa le abbiano precluso oggi il diritto di accesso a uno dei futuri alloggi del nuovo rione De Gasperi. Erano gli anni Ottanta, quando la camorra si era radicata nel rione e Maria ne aveva gestito il lotto clandestino. Oggi è una delle sedicimila persone che nel 2011 hanno fatto richiesta di un alloggio popolare e che non riceveranno risposta per il prossimo decennio. Non sono i reati di associazione mafiosa che oggi precludono l’alloggio a Maria, e nemmeno l’occupazione abusiva di una casa popolare. Non è questione di punire ma di ricostruire e di cambiare. Si tratta del fatto che la città di Napoli oggi è dotata in totale di ventisettemila alloggi popolari contro la richiesta per una casa economica da parte di sedicimila persone, datata per giunta al 2011. Oggi di fronte alla carenza di alloggi popolari, all’abbandono delle periferie e ai programmi di intervento finanziati e non conclusi, viene da chiedersi dove sono le politiche abitative di Napoli. (emiliano esposito)

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