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6 Febbraio 2017

Cronaca cronica. Gli adolescenti, la città e il riflesso deformante delle lame

(fotografia di cyop&kaf)
(fotografia di cyop&kaf)

È ora di cena. Da ogni anfratto suonano stoviglie, il tintinnio delle posate e un ruminare collettivo si sommano al rosario catodico.

In uno dei teatri che nel rione affonda le uscite di servizio quella sera la canzone parlava di coltelli, onore, vendetta. Evocava tempi andati la canzone, modi di fare messi in cantina e sostituiti dalla gentilezza dei costumi civili. Almeno così piace raccontarsela il pubblico del concerto, che si cimenta in scrosci, ovazioni a scena aperta, divertendosi ché tanto l’acqua è passata.

È cupo chiù d’‘o cielo chistu vico
se ‘nserrano ‘e feneste, ma pecché?

Me sta vennenno incontro ‘o meglio amico
cu l’odio ‘mpietto va cercanno a me.
Nu pacchero, chisto è nu segno ‘e sfida
e jamme bello, je so’ lisce pe’ te.
‘Na sfida e duje uommene d’onore ca se jocano n’ammore
‘ncopp’ ‘a lama ‘e nu curtiello.

Eppure fuori, nel rione, i coltelli della canzone si vanno nascondendo ancora nelle tasche dei più piccoli. Di quei brani loro sanno poco o nulla, o meglio, ne conoscono le versioni midi-sbiadite e aggiornate (vedi alla v di Vezzosi). L’egemonia culturale del benessere ha ridotto la canzone napoletana a cosa di cui vergognarsi, al punto che quando durante i laboratori di carnevale chiediamo di mettere un po’ di musica i ragazzi rispondono che no, la loro musica è troppo “pesante”, parla di arresti domiciliari, latitanza, galera (o quasi sempre di amore). Quindi ragazzi, fateci capire, queste canzoni narrano dell’humus che vi dà forma? O le canzoni danno forma al vostro humus? Cioè, ragazzi, è nato prima l’uovo o la gallina?

‘Sta sfida tu l’he fatta ma nun saje
ca ‘sta femmena busciarda
ha ‘ngannato pure a me.
E muovete, fammella ‘sta tirata
parame chesta, oj che te fide ‘e fa’?
‘Sta sfida nunn ‘a faccio pe’ l’ammore ma sultanto pe’ l’onore
pe’ rispetto all’omertà: ‘o pacchero nun me l’aviva da’! 

Mamme danno le spalle, testa china e mani nei lavelli. Odore di limone e chimica, svelto, leva la tavola. Esci, fammi finire di vedere la puntata. Se si chiama mezzo è perché tu sei l’altra metà e lo completi: indivisibili. Il pontone è la calamita che attira la banda a sé, la ricompone e solidifica. Le risate, i cannoni, gli sfottò, e poi quello che guarda un po’ di più, ma come si è permesso? E come, non gli dici niente? Vorresti lasciar perdere ma non si può. E allora andiamo a prenderlo, andiamo a perderlo. Un mezzo, tre terzi d’uomo a cavallo, il coltello. È nu malessere: voi lo mantenete, io sf’erro.

E muovete, fammella ‘sta tirata
parame chesta si te vuo’ salva’!
‘Na sfida pe’ ‘na femmena buciarda ca sta ‘mbraccio a n’atu amante
e a chest’ora ride ‘e te, ca pierde ‘a vita toja pe’ la da’ a me.

È come se la strada percorsa dai motorini portasse dritta dritta, impennando, sulle colonne delle Cronache di Napoli. Immutato il contesto il percorso è obbligato. Ma come interrompere “il flusso delle lacrime ereditarie”? Assai diffusa è l’illusione che isolandola, l’enclave si possa dissolvere. E invece serve frequentarsi, urgono complicità ed evoluzione, tanto più che il chiacchiericcio civile auspica un’estinzione che ha del magico.

Una minoranza di minorenni, tutt’altro che stupida, fiuta il razzismo che le viene scagliato addosso e si rifugia – per risparmio energetico – in un ritratto identitario che le è stato fornito ad arte. È così che queste paranze si vanno incarognendo, finendo col compiacersi, ammirandosi (in un ritratto che di Dorian ha solo il Grey) nello specchio deformante delle cronache, nei riflessi dei film, o di quei libri (non letti ma visti nelle serie tv) che però – è bene chiarirlo – non da loro in carne e ossa traggono spunto, ma dai dispacci cinico-sintetici della questura per la trama, dai professori di dialetto per la lingua, ritagliando figure senza dimensione ma luccicante attraenza; oppure, ancora una volta, si rivedono nelle canzoni dei loro beniamini,  registrazioni con meno velleità artistiche certo, ma almeno – queste sì – in presa diretta.

Allora ci chiediamo e vi chiediamo: non è, ragazzi, che gli servite così? Capretti espiatori per propiziare il risorgere continuo della sudditanza travestita da potere criminale? In fin dei conti, scrisse Samuel Butler, la gallina è il sistema usato dall’uovo per fare un altro uovo. (cyop&kaf)

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