L’offerta musicale napoletana è incessante. Lo spazio di azione di ogni genere ha guadagnato il suo palcoscenico. Il suo pubblico. Le due iniziative di seguito marcano il campo di azione degli strumenti del conservatorio San Pietro a Majella, a segnalare due diverse tendenze, seppure coniugabili quanto ad affinità del pubblico.
Sabato 4 febbraio. Ore 18. L’omaggio ad Aldo Ciccolini, nella sala Scarlatti: Yves Henry suona “Francesco Cilea”, il pianoforte Shigeru Kawai così battezzato dal Maestro che lo aveva scelto per i suoi concerti e da lui stesso autografato il 18 settembre 2007. Il pianoforte di Ciccolini ritorna al San Pietro a Majella grazie alla scelta fatta dal conservatorio nel decidere dell’acquisto di un gran coda. Portoni chiusi. Un po’ di gente fuori. Non ce l’abbiamo fatta, stavolta. «A un certo punto hanno chiuso dicendo che per problemi di sicurezza, poiché era pieno, non poteva entrare più nessuno», mi riferisce un escluso. Continua: «Poi è uscita una signora e ha cominciato a dire: “Tu sì, tu no”. Insomma, chiaramente, le amicizie. E gli altri non li ha fatti entrare. Allora quelli hanno chiamato la polizia». Si animano. Chiedono la mediazione della polizia pur di entrare. Cosa darebbero pur di entrare. Restano fuori, a lamentarsi di quanto accaduto.
Metà sala prenotata. Il resto a spartirsi l’ingresso. Questo è quanto. Così, inganniamo la durata del concerto con un giro tra Colonnese e Perditempo. Alla spicciolata i primi a uscire hanno parole di miele per l’interprete – segnalano – e non esecutore intervenuto. Nel programma che mi son fatto lasciare come souvenir della serata, la quarta di copertina è tutta di Progetto Piano, sponsor co-organizzatore della serata. Pianoforti, con amore.
Sabato 4 febbraio. Ore 21. Casa Morra ospita il terzo appuntamento de La Digestion. La fondazione partner fa gli onori di casa nuova, Palazzo Ayerbo D’Aragona Cassano. Il conservatorio partecipa prestando l’impianto, dopo non facili e lunghe trattative. “A Marc Baron – leggiamo sul comunicato –, noto sassofonista e compositore francese, è affidato il compito di ‘discutere’ con gli straordinari spazi di Casa Morra, nuova realtà culturale della Fondazione Morra”. Ingresso previo biglietto (cinque euro canonici) e compilazione modulo di assunzione di responsabilità. Non ci sono mica i pompieri in questo caso.
Il concerto si terrà sulla monumentale scala a pianta ottagonale, logo architettonico del nuovo immobile. Baron eseguirà una diffusione multicanale del suo ultimo lavoro per nastri magnetici adoperando dieci altoparlanti del conservatorio. Sarà preceduto da “Oggetto quasi”, interventi di Stefano Costanzo. Il suo set si trova al primo piano, rivolge le spalle alla scala.
Non c’è la possibilità di visitare lo spazio espositivo. Solo di consumare qualcosa nel bar posto dinanzi al suo ingresso. Ci sono almeno un centinaio di persone, ma continuano ad arrivarne. Molte si fermano giù. Davanti all’ingresso. Parlano, fumano. Non vedono il Napoli. Un quarto d’ora dopo, si chiede di far silenzio. Si tenta, infatti, di presentare la serata. La resa acustica della comunicazione è compromessa. Forse un volantino distribuito avrebbe fatto guadagnare in chiarezza.
Inizia. Costanzo si produce in una performance importante, in quanto espressione della percussione, chiave d’accesso alla produzione del suono. Sapere cosa usa, vedere come suona non è necessario quanto ascoltare cosa produce. Un fare improvvisativo energico, coerente. Una sorta di treno d’impulsi, poi variazioni di ritmicità, velocità, pressione sonora, gestualità. Il silenzio costruisce un gioco di suoni organizzati. Mai a calare. Peccato per la dispersione del suono in uno spazio difficile che pregiudica il lavoro sul microsuono. Mamma santa quando finisce. Dopo circa una mezz’oretta. Godono tutti.
Nel mentre la nuova medina dell’arte contemporanea si è adeguatamente popolata. L’intervallo è il suo punto di raccolta. Più siamo meglio è, stavolta, in una riconfigurazione del sabato del villaggio. Tutti si conoscono. Tutti si vogliono bene. Dura un bel po’, nonostante sia tutto predisposto, forse perché tutto è già predisposto. Gli altoparlanti segnalati con dei led da bicicletta sono posizionati armonicamente nella semicirconferenza immaginata, con il mixer e il diffusore a occupare un segmento del diametro rivolti verso la scala. Un pubblico scomposto all’ingresso si ricompone lentamente all’interno. Sarà importante vedere come il posto reagisce al suono, se le condizioni di ascolto siano maggiormente orientate al suo prodursi che non alla sua ricezione. Molti si chiedono quale sia la posizione migliore per mettersi in ascolto. La mancanza di un posto assegnato genera particolare confusione.
Quando inizia il concerto, il pubblico partecipa. Parla. Non smetterà mai di parlare, in un modo o nell’altro. L’arte comtemporanea ha perso la patina di silenzio della contemplazione. Il luogo non aiuta. L’acustica è dispersiva e crea rumore. In altre parole, l’informazione musicale non è chiara. Il concerto inizia davvero quando si abbassano le luci, quando delle frequenze alte “flexano” l’ambiente.
L’unico momento in cui la discussione con Casa Morra si apre è quando le basse frequenze fanno vibrare le finestrone del primo piano, proprio mentre si chiudono le porte in barba all’inesistente piano di sicurezza. Forse l’unico segmento degno dei dieci diffusori prestati dal regio conservatorio. Quando le sirene di un’ambulanza filtrano nell’impianto fino a sovrapporsi, espediente piuttosto banale nel segnalare il segmento seguente, esce fuori il carattere artificiale di un flusso dalla poco stringente coerenza strutturale, con la separazione come parametro organizzativo.
Da speleologo del banco suoni, Baron si presta a gestualità anche appariscenti. Anticipano frammenti piuttosto insistenti: una ripetizione ossessiva di elementi che si ripetono prima di incontrare manipolazioni nel tempo (dunque nella frequenza). Ossessivi sì, ma mai di rottura, tanto da risultarne addomesticati. Se il suono si muove negli altoparlanti, le possibilità di coglierlo sono bilanciate dal disperdersi intorno. Lavora diversamente che sul suono fissato, quando consegna alla stampa il suo lavoro.
Torniamo alla situazione iniziale, con la gente che parla a una pressione acustica più forte che i dieci diffusori. Un po’ la scala si inizia a vuotare. Il fatto che la gente ci parli sopra non è da sottovalutare, con le due diverse sonorità a intrecciarsi. L’ingresso di una pseudo-ritmicità segnala l’avvicinarsi del finale. I materiali si agitano per non andare da nessuna parte. Poi si continua. Fino al finale, quando il pubblico recita la sua parte più di chi suona. Applaude entusiasta. Tutti addomesticati nel rituale. Così, ci lasciamo alle spalle in fretta tutto. Il posto, il concerto, il pubblico. Loro restano lì, a ripetersi la nenia del meraviglioso come fosse un mantra. Un po’ come il pubblico della musica classica.
Il pubblico, infatti, resta l’esecutore della conservazione musicale. (antonio mastrogiacomo)