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culture
21 Novembre 2023

Pierre Bastien all’Auditorium Novecento. La musica, la patafisica e molto altro

Ciro Riccardi
(disegno di mario persico)

Sabato 4 novembre sono stato a sentire Pierre Bastien e Louis Laurain dal vivo all’Auditorium Novecento di Napoli, che si conferma una delle pochissime venues in città per ascoltare buona musica dal vivo. Una serata organizzata in collaborazione con Wakeupandream (Marco Stangherlin), che da ormai vent’anni promuove concerti imperdibili per gli appassionati di musica non convenzionale, che difficilmente troverebbero ospitalità altrimenti.

La serata è stata una vera sorpresa per me, e credo valga lo stesso per tutto il pubblico che ha affollato l’Auditorium. Non avevo mai visto nessuno dei due musicisti dal vivo, avevo solo ascoltato alcuni lavori discografici (di Bastien la raccolta Les Premières Machines: 1968-1988, o il più recente Baba Soiréè; Pulses, pipes, patterns di Laurain), che però non rendono l’idea di quello che realmente succede durante la performance: entrambi trombettisti, utilizzano modi di suonare a dir poco inconsueti sui rispettivi strumenti, per ottenere effetti e timbri insoliti, sebbene la definizione di “tecniche estese”, così come l’ho intesa fino a oggi, mi sembra riduttiva riferita a questi due musicisti.

Louis utilizza la tromba sia come strumento percussivo, privata di tutti i dispositivi atti a ridurre i rumori dei pistoni quando vengono abbassati, sia come un “tubo idraulico” che può produrre timbri diversi provenienti da diverse pompe, avendo installato microfoni nei diversi fori ottenuti dallo smontaggio dello strumento. In pratica, ogni tasto non è solo una nota diversa, è anche un timbro diverso, proveniente da un altro punto dello spazio, con una diversa intensità.

Pierre, dall’altra parte, è un mondo musicale a sé stante. Trombettista/costruttore/inventore, la sua è una sperimentazione sonora tra il surrealismo e il futurismo: la costruzione di semplici macchine, collegate alla tromba oppure a sé stanti, costruite con i pezzi del “meccano” e con ogni sorta di oggetto strano, usati in maniera impensabile, sordine che producono suoni improbabili, bocchini di altri strumenti applicati alla tromba, sono solo una parte del suo mondo sonoro, che spazia dallo sperimentalismo più avanguardista alle melodie più pop, passando per il jazz e la musica contemporanea senza alcuna soluzione di continuità. Con lui sono riuscito ad avere una lunga conversazione parlando del concerto, della sua musica, del suo passato.

«Ci piace suonare insieme – comincia Pierre –. Stavo dicendo a Louis proprio adesso che quando suono con altri musicisti non sono mai così sicuro come quando suono con lui. Come dirlo? So che accadrà qualunque cosa; suoneremo bene, bei suoni e buona musica. Resto sempre molto colpito dall’immaginazione nella musica, e lui ha molta fantasia. È l’unico che ha avuto l’idea di togliere i silenziatori della tromba per ottenere il ticchettio, sai in genere si cerca di evitare il ticchettio delle valvole, invece lui ne approfitta e ci fa della musica incredibile».

Avevo mille domande, avrei voluto chiedergli conto di ogni singola diavoleria che si era inventato, ma forse sarebbe stato anche sterile. Volevo capire le sue idee da dove vengono, da quale necessità.

(fotografie di ludovico brancaccio)
(fotografie di ludovico brancaccio)
(fotografie di ludovico brancaccio)
(fotografie di ludovico brancaccio)
(fotografie di ludovico brancaccio)
(fotografie di ludovico brancaccio)

Che parte ha l’improvvisazione nella vostra performance?
«Penso che Louis rispetto a me sia più un improvvisatore. A me piace molto improvvisare a casa, ma tutte le macchine che ho realizzato, generalmente non improvvisano molto. Per anni ho costruito macchine che dessero una direzione molto rigorosa, diretta, ma le piccole macchine che uso adesso le ho costruite di recente, sono più aperte a qualsiasi cosa io possa suonare. Posso adattarmi facilmente agli altri musicisti e posso improvvisare molto di più con loro perché mescolano più suoni che poi si intrecciano tra loro. E forse è proprio lo schema ritmico che è interessante, il ritmo con cui la macchina stessa si fonde con il resto. Non sono sincronizzate. Si sincronizzano da sole lungo il concerto in modo casuale, così da lasciare entrambi improvvisare facilmente. In tal modo sappiamo come iniziare, sappiamo come finire, ma quello che accade nel mezzo segue uno schema non sempre preordinato».

Vorrei sapere qualcosa in più su di te. Come hai iniziato? Che desiderio ti spinge a sperimentare macchine e cose del genere? Voglio dire, all’inizio perché non hai scelto di suonare uno strumento in maniera convenzionale?
«Sono due domande diverse. So esattamente quando ho iniziato. È stato semplicemente leggendo un libro, e il libro si intitola Impressioni d’Africa di uno scrittore morto a Palermo: Raymond Roussell. Esiste un bel libro di Leonardo Sciascia: Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, sugli aspetti poco chiari delle circostanze della sua morte. Roussel è morto a Palermo, al Grand Hotel des Palmes, e non è sicuro si tratti di suicidio o semplicemente di overdose. […] In Impressioni d’Africa Roussel descrive un’orchestra elettronica termodinamica, e quando lessi il libro avevo diciannove anni. “Oh – ho pensato –, devo fare qualcosa in questa direzione”. Ma rifare l’orchestra termodinamica sarebbe stato impossibile, perché è descritta in modo molto preciso e molto dettagliato: è un’orchestra che reagisce alla temperatura, immersa in una gabbia di vetro, e quando la temperatura è fredda emette suoni lenti e pesanti, poi quando fa caldo si mette a riprodurre musica molto, molto frenetica. Allora ho cercato una mia strada personale, in questa direzione».

L’altra domanda era, perché suoni lo strumento in modo “improprio”?
«Ho studiato chitarra, e il mio insegnante mi chiedeva di usare il metronomo. Avevo quindici anni durante la piccola rivoluzione del ’68. Penso che all’epoca tutti fossero pronti per alcuni cambiamenti, io lo ero, con chitarra e metronomo, ma dovevo imparare a suonare a tempo. Beh, quel tic, tic, tic, tic, mi sembrava completamente anti-musicale. Quindi sono andato in cucina, ho preso due padelle e ho usato il metronomo per suonare su queste. Invece del classico tic, tic, ottenni qualcosa di più, di molto più musicale: quella fu la mia prima macchina. Subito mi resi conto che suonare la chitarra così diventava molto più interessante. Poi mi sono fermato per anni, ovviamente, per ricominciare quando ho letto questo libro».

Un libro, quindi, è alla base dell’ispirazione di Pierre, e tal cosa rivela molto sulla sua personalità artistica. Roussel è stato uno scrittore, drammaturgo e poeta francese, vissuto a cavallo dei primi anni del Novecento, ed è considerato uno dei padri spirituali della Patafisica, della letteratura potenziale e della letteratura combinatoria. Non ha avuto molto seguito in vita, ma è stato rivalutato nel secondo dopoguerra dagli scrittori dell’OuLiPo (acronimo del francese Ouvroir de Littérature Potentielle, ovvero “officina di letteratura potenziale”) per la sua vicinanza con la loro estetica.

Come vi siete incontrati voi due?
«A un party durante il periodo del Covid. Suonavamo entrambi, in momenti differenti. In genere non suono con tutti i musicisti, mi piace quello che mi piace, ma con Louis l’intesa è nata anche perché suoniamo lo stesso strumento, la cornetta. Lui ha studiato, io no, sono un autodidatta».

Quindi è un vero musicista?
«Un vero musicista? Ciò significa che io sono un falso (ride)».

Dai, scherzo. Voglio dire, qual è la definizione di un vero musicista?
«Significa accademico. Posso capire. Sono totalmente autodidatta alla cornetta».

E cosa hai studiato?
«Ho studiato letteratura francese».

Sorprendente! E chi è il tuo scrittore preferito?
«Raymond Queneau e Raymond Roussel, oltre a Jarry. Con Queneau in qualche modo ho incrociato la mia esperienza, ho preso parte al passato per andare nel passato e ho conosciuto Enrico Baj il pittore. E Baj aveva realizzato un libro con Queneau che si chiama Meccano ou l’Analyse Matricielle du Langage».

La tua roba!
«Sì, roba mia. E Baj ha tirato fuori un sacco di sculture dal Meccano. Ha realizzato tutte le marionette dei personaggi e mi ha invitato a suonare nel suo museo, quando era ancora vivo».

In pratica, come Queneau e gli scrittori dell’OuLiPo usano la “scrittura vincolata”, ovvero la tecnica di restringere la propria produzione letteraria a delle regole auto-imposte, così Pierre ha imposto alla propria musica delle regole, legate alle macchine autoprodotte, alle strane sordine e ai bocchini, ai loro effetti inaspettati. Un concetto filosofico, più che strettamente musicale, e la filosofia è alla base di tutta la grande musica. Davvero sorprendente: ci siamo ritrovati a parlare di letteratura, di patafisica, di scrittori e di pittori. A ben vedere, la nostra conversazione mi ha dato una lettura inaspettata non solo del concerto che avevo appena visto, ma anche delle distinzioni tra musica “studiata” e non. Che senso hanno tali distinguo? Probabilmente Pierre aderisce a molte più regole di quanto non facciano tantissimi altri musicisti tra cui me o lo stesso Mario, che era insieme a me a intervistarlo, solo che le sue se le impone da solo, perché è nella costrizione che trova la massima ispirazione per liberare l’inventiva e la fantasia. Il concetto stesso di improvvisazione si assimila allo scorrere del tempo, di un tempo “altro”, eterodiretto. La sua ricerca non è solo musicale o timbrica: è fascinazione, fantasia di accostamenti strambi. Ho cominciato a vedere le sue invenzioni come complessi strumenti futuristi, come elementi di una scultura surrealista, più che dispositivi sonori, e tutto mi è sembrato estremamente coerente. Dalla mia visione di musicista “accademico” (quanto lo sono in realtà? le regole dell’armonia, della melodia, non sono anch’esse regole autoimposte, ogni qualvolta suono, solo o con altri?) mi aspettavo una discussione sull’improvvisazione, sulla performance. Mi aspettavo di parlare di aspetti tecnici, e invece Pierre, come tutti gli artisti veri, ha saputo mettere in discussione le mie convinzioni. Mi ha saputo portare da un’altra parte, in un luogo dove le parole “accademico” e “autodidatta” non hanno senso: il luogo dell’arte. (ciro riccardi)

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