Il teatro Augusteo di Napoli ha un’uscita di sicurezza che dà sul fondo di un vicolo cieco. Sul muro fa bella mostra di sé un’insegna di ferro rovinata dal tempo, con la scritta Erbe Medicinali. Appena trasferita da quelle parti, M. ha subito notato l’insegna arrugginita. Un anziano abitante di un basso lì vicino le aveva descritto quell’erboristeria come una delle prime di Napoli, e una delle attività più antiche in quella parte del quartiere. Ma l’erboristeria aveva chiuso da tempo, lasciando solo l’insegna e un puntatore dimenticato su Google Maps. Quella porzione di vicolo si era rivelata comunque utile a qualcosa. Per esempio, M. ci parcheggiava il motorino durante il giorno, quando faceva la spola tra la casa, gli appuntamenti di lavoro e la palestra, perché trovare un posto da quelle parti è un’autentica impresa. Come lei, qualcun altro che vive o lavora in zona conosceva quell’angolo, e ne usufruiva per qualche ora.
Da qualche settimana nel vicolo c’è attività. Qualcuno ha rilevato il locale e lo sta ristrutturando. L’insegna c’è ancora, ma un pomeriggio M. ha trovato il vicolo sbarrato da una catena che correva tra una fila di paletti nuovi di zecca. Oltre la catena, due ragazze sistemavano sedie e tavolini. La vecchia erboristeria era diventata uno spritz bar, e si inaugurava quella sera. M. come sempre era in ritardo, e mentre sgasava via alla ricerca di un nuovo parcheggio si chiedeva se la privatizzazione di fatto del vicolo fosse stata autorizzata o decisa arbitrariamente. Alle sue spalle, i proprietari degli altri due spritz bar che si contendono il medesimo fazzoletto di strada, tenevano d’occhio i preparativi dell’inaugurazione con malcelato fastidio.
M. vive ai Quartieri Spagnoli, in una delle parallele a ridosso di via Toledo che più ha cambiato volto negli ultimi anni. Dall’inizio alla fine, il vicolo è un susseguirsi di ristoranti, spritzerie, trattorie “tipiche” e “antiche” pizzerie con tre o quattro anni di attività. Qui la tanto auspicata pedonalizzazione non ha significato la liberazione dello spazio pubblico dal parcheggio selvaggio e dal flusso implacabile di mezzi a due ruote che caratterizza i vicoli napoletani – o meglio, non solo. L’area pedonale ha di fatto consacrato definitivamente l’intera strada alla monocultura del tavolino. Da vico Lungo Gelso a salire verso Montecalvario, gli stessi vicoli in cui fino a pochi anni fa i non residenti si affacciavano in punta di piedi e con un pizzico di timore, ora accolgono il flusso incessante dei turisti. Botteghe e negozi di prossimità chiudono, b&b spuntano come funghi, la qualità e la varietà dell’offerta commerciale si immiseriscono e il costo della vita aumenta.
Per quanto utile, parlare di un processo di gentrificazione in atto nel centro storico di Napoli è probabilmente una semplificazione. La densità di un tessuto sociale e urbanistico unico in Europa ha finora attutito il colpo, tenendo i grossi giocatori lontani dal tavolo. In attesa di vedere come andrà a finire – ovvero se i grandi fondi di speculazione immobiliare considereranno la partita napoletana degna di essere giocata – possiamo concentrarci su come tutto è iniziato. A differenza di quanto accade di solito, qui la cosiddetta gentrificazione non ha avuto bisogno di imparare la lingua della “rigenerazione” culturale dal basso, né di approfittare della sua infrastruttura diffusa fatta di club alternativi e gallerie d’arte indipendenti per farsi strada. Anzi, a dirla tutta, di musica e cultura nella nuova Napoli a misura di turista non c’è traccia. In una sorta di contrappasso, per una città ossessionata dalle proprie abitudini alimentari, il cavallo di Troia per impadronirsi di vicoli, bassi e botteghe è stato il cibo. Ovviamente, il processo non sarebbe stato sostenibile se rivolto ai soli napoletani. C’era bisogno di un attore esterno, disposto a ingurgitare un eccesso di pizza e sfogliatelle tale da generare quel surplus di profitto, a sua volta in grado di innescare un’effettiva trasformazione del territorio. Come in altri sud del mondo, a Napoli gentrificazione fa decisamente rima con turistificazione. E qui viene servita sul piatto piano, calda di forno, ancora unta d’olio. Che fate signuri’, non lo assaggiate un pezzetto?
Avevamo affrontato temi affini qualche tempo fa in questo articolo. Erano i giorni in cui la movida notturna varcava i tradizionali confini delle piazze studentesche per dilagare nell’intero quadrilatero dei decumani, surfando l’onda lunga di cibo e alcool resa disponibile dal proliferare di nuove attività commerciali; i comitati antimovida si affacciavano nel dibattito cittadino con striscioni sui balconi e lettere ai giornali; e quella del turista si iniziava ad affermare come una figura stabile – seppure non ancora così invasiva – nel panorama sociale del centro città. A distanza di qualche anno, e dopo l’intermezzo di una pandemia globale, la congiuntura è sensibilmente mutata.
La principale novità è costituita dalla scelta della nuova amministrazione comunale di adottare il decoro urbano come principale dispositivo di governo. In tutta franchezza, non ci sentiamo di attribuire una speciale vocazione repressiva né un particolare piglio autoritario al grigio Manfredi, la cui presenza ricorda piuttosto quella di un ectoplasma. La sua campagna elettorale sarà ricordata per l’assenza di una qualunque visione di città; e la sua vittoria come il risultato di una serrata contrattazione politica avvenuta ben oltre i confini di Napoli. In realtà, la linea del decoro urbano elevato a bussola politica è da tempo uno sport nazionale, basti pensare a Sergio Cofferati, autore negli anni Duemila della desertificazione di una Bologna allora all’avanguardia dell’undergound in Italia; più di recente agli sgomberi facili e alle ordinanze anti-bivacco dei sindaci a cinque stelle di Torino e Roma; e ovviamente al campione locale, lo sceriffo De Luca, che a Salerno è riuscito a spegnere tutte le luci della notte – tranne quelle d’artista, s’intende.
C’è tuttavia una differenza rilevante rispetto ad altre città. Mentre altrove il mantra del decoro è ingranaggio in una più ampia macchina di “rigenerazione” alimentata da capitali consistenti – nella forma di finanziamenti pubblici e investimenti privati – che sventra e ricostruisce interi quartieri e potenzia la rete dei servizi esistenti, a Napoli il processo avviene in assenza di tutto ciò. O, piu precisamente, avviene a causa di questa assenza. Dopo aver verificato di persona il deficit spaventoso delle casse comunali, il candidato Manfredi aveva ottenuto un impegno formale dalle forze di governo a stilare un “patto per Napoli” al fine di raddrizzarne il bilancio. Primo caso di un eletto che non delude le promesse, bensì viene egli stesso deluso, il neosindaco si è invece ritrovato a stendere pietosamente la mano senza ricevere un centesimo. Dopo alcuni mesi di silenzio istituzionale, la nuova amministrazione ha infine individuato nel decoro l’unica possibilità di intervento praticabile. Il criterio è semplice: per risanare i trasporti, riaprire i giardini pubblici, o più banalmente spazzare le strade, ci vogliono soldi e un severo sforzo di pianificazione. Perseguire il decoro come strategia di governo invece costa poco o nulla: basta emanare un’ordinanza, convocare un paio di incontri in prefettura e mandare un po’ di vigili in giro a fare multe per schiamazzi e decibel in eccesso. Amplificata dalla stessa corte di giornali compiacenti che sono riusciti a trasformare la movida notturna nel più urgente problema cittadino, questa miserevole attività di pattugliamento di territori estremamente circoscritti viene promossa a pratica virtuosa che dovrebbe beneficiare la cittadinanza nella sua interezza.
Ripetuta all’infinito, questa storiella sembra ormai essere stata digerita anche da tanti napoletani. Resta tutto sommato comprensibile l’atteggiamento di una minoranza che punta a proteggere l’incremento esponenziale delle proprie rendite, frutto di un boom turistico che ha reso improvvisamente monetizzabili improbabili terranei e appartamenti senza finestre – e si sa, in Italia il turismo considerato più affidabile è quello a trazione familiare, e le famiglie la notte devono dormire. Più preoccupante è osservare una fetta di popolazione che degli introiti del turismo non vede che le briciole – in forma di lavoro nero, grigio e sottopagato, quando non ne subisce direttamente gli effetti nefasti, fare propria una battaglia per la vivibilità sacrosanta, ma che andrebbe combattuta con altre armi, e su altri terreni. Potenziamento del trasporto pubblico, incentivi alla delocalizzazione delle attività, bandi pubblici per l’assegnazione e valorizzazione di strutture dismesse, spiagge libere e gratuite, rivalutazione del verde urbano, risorse o quantomeno supporto logistico e amministrativo per una programmazione culturale degna di una metropoli, sono solo alcuni dei punti più urgenti per costruire una via d’uscita dalla dittatura dello spritz al tavolino e dei festival della pizza che stanno strangolando la città. La sensazione è invece quella di un malcontento crescente, generato dal livello sempre più basso dei servizi che la città offre ai propri abitanti, ma facilmente pilotabile contro obiettivi del tutto ininfluenti; oggi la movida, domani – specialmente dopo le elezioni – chissà.
Sarebbe infine interessante riflettere sull’influenza della gestione pandemica italiana – e in particolar modo di quella campana, un’eccezione nell’eccezione – nell’orientare, incoraggiare e normalizzare un approccio securitario che, riducendo questioni di programmazione politica all’ambito dell’ordine pubblico, di fatto non fa che assolvere la politica stessa dai propri compiti, al contempo rafforzando il peso degli apparati polizieschi in un dibattito che dovrebbe invece restare politico.
Non troppo tempo addietro eravamo in pochi a esprimere a voce alta la preoccupazione che giustificare o assecondare passivamente misure repressive straordinarie in nome di uno stato d’emergenza permanente potesse portare – sul medio e lungo periodo – più danni che benefici, oltre a costituire un precedente pericoloso. Oggi sono in tanti a lamentare un arretramento generalizzato nei modi e nei tempi in cui è concesso vivere lo spazio pubblico, dove organizzare un dj set in un bar o un piccolo festival indipendente è diventata un’impresa impossibile, e dove pure i vivaci centri sociali scelgono a malincuore di chiudere un’ora prima per non dare troppo nell’occhio – ben coscienti di essere il prossimo problema da risolvere sull’agenda dell’amministrazione. D’altra parte, chissà il sindaco a chi o cosa si ispirava quando, nell’autunno 2021, fresco di elezione, proponeva di chiudere i bar alle 23 per liberare le strade da risse e ubriachezza molesta. In questo scenario traballante sarà interessante osservare cosa ne sarà del già evanescente Patto per Napoli in seguito al risultato delle prossime elezioni politiche, e chi sarà a farne le spese; e se, nel frattempo, i napoletani si saranno accorti che, di questi tempi, nella città che tanto amano è meglio essere turisti che abitanti. (brian d’aquino)