Mentre si moltiplicano le anticipazioni su un futuro piano di privatizzazione che riguarderebbe centinaia di beni di proprietà del comune di Napoli – un piano delegato a Invimit, società del ministero dell’economia –, la stampa locale ha avviato in parallelo una campagna sui presunti “danni erariali” causati da alcune occupazioni di collettivi insediati da tempo in edifici di proprietà pubblica. Pare addirittura che il sindaco Manfredi senta “il fiato sul collo” della Corte dei conti, e quindi la necessità di “mettere a reddito” le strutture riconosciute dalla precedente giunta come “bene comune”. Si tratta in realtà delle prime avvisaglie di una resa dei conti annunciata, che la nuova giunta Pd–5Stelle ha messo in cantiere con l’obiettivo di annullare le ultime vestigia della cosiddetta “anomalia napoletana”, simboleggiata in questo caso da una delibera del 2016 della giunta de Magistris, che affidava quegli immobili ai collettivi di occupanti avallandone “l’uso civico”, cioè la gestione attraverso assemblee aperte alla comunità, senza scopo di lucro.
Pare sia in atto un’indagine amministrativa, che si vorrebbe quindi neutra e oggettiva, sui possibili pregiudizi arrecati alle casse comunali, ma è evidente che la direzione intrapresa e le scelte future saranno tutte e solo politiche. Su questi temi si cambia registro, è il ritornello che fin dalla campagna elettorale ripete l’entourage del sindaco, anche se l’impressione è che più che a una nuova idea di gestione della cosa pubblica si stia dando avvio a un molto più banale regolamento di conti, estromettendo da posizioni di privilegio alcuni gruppi di presunti sostenitori dello schieramento che ha governato la città negli ultimi dieci anni, che peraltro ha dimostrato la sua inconsistenza sfarinandosi miseramente ancora prima delle scorse elezioni comunali.
D’altra parte, i collettivi che operano negli spazi cosiddetti “liberati” non potevano non sapere che questo nodo sarebbe prima o poi arrivato al pettine, e con esso tutte le contraddizioni e in fondo la discutibile utilità di mettersi sotto l’ombrello di istituzioni inefficienti ed esposte agli umori dei potentati di turno. La trappola delle delibere, dei protocolli, dei regolamenti, insomma della infida burocrazia da cui ogni spazio sociale dovrebbe tenersi a distanza, ha mostrato già qualche settimana fa la sua pericolosità, durante l’incursione dell’assessora comunale alle politiche giovanili, Chiara Marciani, che una mattina d’aprile si è presentata con il suo staff, ma senza farsi annunciare, nei locali dello Sgarrupato, laboratorio sociale del quartiere Montesanto. L’assessore ha chiesto conto delle attività svolte, non trovandole evidentemente corrispondenti a quelle indicate nel protocollo con il quale la struttura era stata inserita dalla precedente giunta nella lista dei centri giovanili comunali. E quindi: sì ad attività che genericamente stimolino “la partecipazione dei giovani affinché possano riconoscersi all’interno delle istituzioni”, no invece a pacchi viveri alle famiglie in difficoltà, sportello legale e antisfratto, sport gratuito per i bambini del quartiere, tutte attività che invece nello Sgarrupato si praticano regolarmente e con successo. L’alterco che è seguito al blitz è stato amplificato ad arte dall’assessora, con tanto di denuncia ad alcuni attivisti per una presunta aggressione, così da mettere in una posizione ancora più scomoda le persone che animano il centro.
È chiaro, insomma, che l’offensiva è già partita su diversi terreni, dalle basse provocazioni alle campagne di stampa, e naturalmente sotto le insegne della “legalità”, il grimaldello preferito dalle dirigenze neoliberali per smontare e rimontare le nostre città come parchi a tema per turisti e benestanti benpensanti.
Come reagiranno gli spazi autogestiti a questo attacco? Qualcuno, come il gruppo che per dieci anni ha organizzato le attività del Lido Pola di Bagnoli (già presente nella lista degli spazi “tutelati” dalla delibera del 2016), ha individuato una via per mantenere un piede nella struttura delegando al livello istituzionale la gestione: la partecipazione a un partenariato – guidato dal Cnr e con il beneplacito della nuova amministrazione comunale – che si appresta ad aggiudicarsi un finanziamento da quattordici milioni di euro per la creazione, in quegli stessi spazi, di un centro di ricerca bio-marino. Qualcun altro prova a farsi coraggio immaginando la nuova assessora all’urbanistica, Laura Lieto, come possibile garante dei beni comuni, a dispetto di alcuni ambigui processi avviati in zone periferiche della città che assomigliano più a tentativi di cooptazione che a percorsi partecipativi. Altri, come Villa Medusa a Bagnoli, provano a portare avanti un percorso di autonomia e maggiore conflittualità, per non correre il rischio di lasciare i percorsi intrapresi in balia degli umori e degli equilibri istituzionali. Forse proprio a causa di alcune posizioni “di rottura”, gli attivisti dello spazio sul lungomare di Bagnoli sono stati i primi a ricevere espliciti avvertimenti, come le indiscrezioni circolate prima in consiglio comunale, e poi sulla stampa locale, sulla presenza dell’edificio nel piano di “valorizzazione” del Comune.
Immaginare un percorso di lotta comune che ristrutturi le delibere e i regolamenti svincolando gli spazi dal controllo istituzionale appare poco realistico. È più probabile che andremo incontro a un non breve periodo di guerra a bassa intensità fatta di pressioni mediatiche, sporadici colpi bassi, sgomberi a singhiozzo e singoli accordi al ribasso. Una prospettiva comunque sconfortante, che ostacolerà ulteriormente quella che dovrebbe essere la funzione principale di questi spazi, ovvero criticare le politiche in atto ed elaborare nuove pratiche e altri scenari. Quanto sta succedendo in città, per esempio a Scampia o a Ponticelli, mostra come l’obiettivo della giunta sia innanzitutto quello di riprendere possesso degli spazi, se possibile evitando scontri frontali, mettendo in campo generici processi di partecipazione governati da personale proveniente dall’università, che mai come in questa fase procede a braccetto con l’amministrazione. L’obiettivo è di aprire varchi all’interno delle strutture “bene comune” emarginando gli attuali animatori in favore di enti di ricerca, associazionismo formale e imprese del terzo settore. Sarebbe quindi auspicabile che gli spazi autogestiti non restassero sulla difensiva ma, coordinati tra loro, si svincolassero dalle maglie istituzionali e dai teatrini partecipativi, rilanciando una discussione di più ampio respiro sul futuro della città, che non rinneghi i nobili principi su cui si basava la delibera del 2016, ma sia capace di allargare il campo attivando nuove sponde nella società cittadina, tra quelle ancora disponibili nel mondo dell’impegno sociale, politico e culturale (questo, per esempio, è un tentativo in atto).
Riorganizzare una conflittualità reale rispetto alla gestione degli spazi pubblici, fare inchiesta sulle manovre della giunta, dell’università, di un terzo settore sempre più aggressivo e influente sulle politiche pubbliche; conquistare nuovi spazi e costruirsi nei quartieri la capacità di difenderli: è un percorso controcorrente rispetto al contesto del paese e alle ondate repressive che sembrano non avere più argini, ma può essere l’occasione per far sì che quello che succede a Napoli diventi veramente un esempio per altri territori, archiviando una volta per tutte le palingenesi immaginarie del decennio de Magistris, che al cospetto dei nuovi scenari politici si stanno sciogliendo come neve al sole. (napolimonitor)
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