Lunedì 12 settembre per la prima volta il Tribunale di Roma cercherà di eseguire lo sfratto di una famiglia titolare di protezione internazionale, cioè una famiglia per cui l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite aveva richiesto la sospensione finché non fosse data loro una soluzione abitativa dignitosa. Se lo sfratto venisse eseguito, condannando tre bambini piccoli a vivere senza casa o separati dai genitori, si consumerebbe una grave violazione dei trattati Onu, in particolare del Patto internazionale sui Diritti economici, sociali e culturali, firmato dall’Italia nel 1978. Il rispetto degli obblighi internazionali è garantito dall’articolo 117 della Costituzione; come conseguenza della crisi del Covid-19, da maggio 2021 molte persone vulnerabili sotto sfratto – anziane, disabili o con figli minori – hanno richiesto la protezione Onu, sostenendo che le autorità italiane non stanno garantendo il loro diritto fondamentale a una vita dignitosa. La Commissione Onu che vigila sui diritti economici, sociali e culturali ha disposto decine di sospensioni, soprattutto a Roma.
Un anno dopo, la Presidenza del Consiglio dei ministri è intervenuta per raccomandare direttamente al Tribunale di Roma di non prendere in considerazione queste sospensioni, e di considerare non vincolanti le disposizioni della Commissione, ribadendo il diritto al profitto come criterio superiore al rispetto dei diritti fondamentali della persona. L’Avvocatura dello Stato a maggio ha chiesto al Tribunale di cacciare di casa una donna di ottantasette anni sotto protezione Onu, per restituire all’impresa costruttrice l’uso dell’appartamento, edificato con fondi pubblici per l’abitazione popolare. In seguito, diversi giudici hanno disposto lo sfratto di persone titolari di protezione Onu, invalidando la funzione e le prerogative dell’Alto Commissariato. Se le autorità italiane iniziassero a considerarsi svincolate dal diritto internazionale, non si metterebbe solo a rischio la permanenza dell’Italia nel Consiglio per i diritti umani, ma si costituirebbe anche un pericoloso precedente che potrebbe legittimare le violazioni di altri stati. Patti e trattati internazionali coprono molti aspetti della vita politica, sociale ed economica degli abitanti del pianeta, dall’ambiente ai diritti politici, e sono considerati fonte del diritto di ogni singolo stato.
Proseguiamo la pubblicazione di estratti di interviste di persone che hanno ricevuto la protezione Onu a Roma (le precedenti sono qui, qui e qui), raccontando la storia di Ashraf El Jazzar, di Centocelle/Alessandrino, che rischia di essere sfrattato lunedì 12 settembre. Nato in Egitto cinquantacinque anni fa, Ashraf lavora in Italia come precario dell’edilizia e della ristorazione da trentadue anni. Dalla chiusura del ristorante a marzo 2020 non ha percepito né stipendio, né liquidazione, né ristori (come chiunque lavorasse in nero); il proprietario non ha bisogno della casa per viverci, ma ha ordinato immediatamente lo sfratto, nonostante il Comune non abbia offerto alla famiglia né una casa popolare né un centro di emergenza. I servizi sociali hanno consigliato ad Ashraf di andare a vivere in un bed and breakfast. La sua storia mostra come siano intimamente connesse le questioni lavorative, quelle politiche e quelle abitative.
Ashraf: Mio padre si chiama Mohammed, mia madre si chiama Su’ad, in casa eravamo dieci, a quell’epoca tutti facevano una famiglia numerosa, come anche in Italia. Io come gli altri figli ho studiato – uno medico, uno ingegnere, io commercialista. Mi sono laureato in Economia e commercio; dopo la laurea, per forza il servizio militare. Ho fatto l’ufficiale, ho fatto il militare proprio di città, del Cairo; ho avuto un’occasione e ho fatto anche il magistero, per due anni; quando ho finito il militare finisce pure il magistero. Dopo sono andato a lavorare in banca, la contabilità di banca, per sei mesi, ma sempre con lo stipendio basso, non bastava neanche per pagare affitto. Sempre vivi pari pari, non puoi risparmiare nulla per fare qualcosa del futuro, sempre a casa dei genitori. Morto mio padre, stavo con mia madre, da soli; [i fratelli] ognuno ha preso la sua strada – quella s’è sposata, quello ha fatto la migrazione, qualcuno in Canada, l’altro in Arabia Saudita, il resto in Egitto. Siamo rimasti io e mia madre. Io decido: se rimango non faccio un passo avanti, e sono venuto in Italia. Poi tu sai che in Egitto c’è la dittatura: in tempo di Mubarak, e anche con il governo nuovo di Sisi, è la stessa cosa. Per questo, o rimani zitto, sempre dici di sì, specialmente davanti alla polizia, o esci fuori. Io ho scelto l’altra strada: uscire fuori dall’Egitto. Sono venuto qui in Italia alla fine dell’‘89. Io ho circa trentadue anni in Italia.
Perché in Italia?
Ashraf: Perché è un paese vicino, pure il popolo italiano si sente simile al Nordafrica, di mentalità. Mi piace l’Italia, ho sentito la loro storia, è un paese di cultura. Pure ho un po’ di amici qua; sono andato in Austria, poi Ventimiglia, e l’Italia. Un amico mi ha dato un indirizzo qui, a via Renzo da Ceri [Prenestino/Labicano, piazza Malatesta]. Mi ricordo che c’era un giardino qua, la piazza non era così, c’erano gli alberi. Con altri amici ho preso una stanza, eravamo tre persone, ognuno la sua stanza. Comunque ho cercato subito per lavorare; lavoro facile, ho fatto il lavapiatti. Man mano ho fatto il muratore, il manovale, il pittore, prima aiuto pittore, poi pittore; poi il lavoro era un po’ fermo, e ho cercato per qualcosa di fisso. Ho scelto la ristorazione. Tramite amici, mi dicono: “l’unica soluzione: impara un mestiere”. Io già avevo lavorato come lavapiatti, quindi ho fatto un corso e ho imparato subito, tre mesi e sono uscito come pizzaiolo. Ho imparato un po’ la lingua, piano piano ho preso il lavoro. Poi è uscita la sanatoria, ho fatto il documento, tutto a posto. L’unico problema, qui mettono in maggioranza lavoro nero. Sempre mettono a part-time, o nero, per risparmiare. Specialmente negli ultimi quindici anni. Io ho cinquantacinque anni adesso, e mi mettono sempre al lavoro nero. O accetti, o rimani senza. Io accetto, e vado avanti. Piano piano poi mi sono sposato…
In che anno?
Ashraf: Più o meno venti anni fa. Ho avuto un figlio, sedici anni, poi sono divorziato. Lui studia, la mamma lavora saltuaria, io pure lo aiuto. Per fortuna lui è troppo forte nello studio. Io mi sono sposato un’altra volta, dieci anni fa. Ho fatto il raggiungimento familiare, ho fatto venire lei qua. Ho avuto gemelli, maschio e femmina, adesso hanno tre anni; poi ho avuto un altro bambino, circa un anno e mezzo fa. Poi ho trovato il problema del pagamento dell’affitto, la situazione proprio del lavoro. Tu sai che la ristorazione con il Covid è andata proprio giù; io lavoravo come pizzaiolo a Furio Camillo, in una pizzeria napoletana. Quando ha avuto il problema del Covid, noi torniamo al lavoro e la signora, senza avvertire nessuno, chiude la serranda. La maggioranza lavorava senza contributi. Lei mi diceva sempre: “Domani, dopodomani…”; mi metteva in regola per un periodo, poi mi licenziava per non pagare i contributi. Lei è impiegata a Napoli, ha preso la pensione e ha preso il ristorante del figlio, che era pieno di debiti. Una brava persona, sinceramente: se la cosa andava bene, lei continuava. Io mi sono trovato in difficoltà: senza stipendio, senza liquidazione, non ho preso niente. Prima ho preso un po’ di debiti con gli amici, poi il proprietario ha fatto lo sfratto.
Hai provato a cercare altri lavori?
Ashraf: Un po’ di lavoro adesso c’è, però… vedo l’annuncio, vado a fare il colloquio, ma quando sanno l’età mia dicono: “Lascia il numero di telefono”. Perché pagano contributi alti. Pagano circa 750 euro al mese di contributi, quindi preferiscono prendere un pischello, un ragazzino piccolo. Anche io gli dico: “Mettetemi part-time, per lavorare”, ma niente. Gli assistenti sociali mi hanno trovato tre o quattro lavori, io sono andato: la stessa cosa. Parlano con me: “Che capacità hai, di fare, di qua e di là”, poi al finale mi dicono: “Lascia il numero di telefono”. Non è che il lavoro non c’è, ce n’è meno di prima, ma in maggioranza per la mia età ti rifiutano. Per la ristorazione prendono ragazzi piccoli, li pagano pochi soldi, lavorano più dell’orario, non li pagano la cosa giusta. Però il periodo più difficile è stato sempre quello del Covid. Se un locale è rimasto aperto, lavora a portar via. Se in un locale esterno lavoravano quattro persone, ora lavora una persona. Se ci lavorava una persona, ora lavora il proprietario. Io ho cercato pure per fare l’autista, l’autista per un anziano, o le pulizie, lavori pesanti, per caricare pesi: non è uscito.
Il proprietario ha fatto subito lo sfratto?
Ashraf: Il proprietario è un direttore di Vodafone, l’ho conosciuto tramite un’agenzia immobiliare giusto prima del Covid. Lui abita a San Giovanni, abbiamo il contratto registrato, però pago l’affitto sempre “face to face”. Gli porto i soldi, prendiamo il caffè, senza nessun problema. Mi aveva dato la parola che fa la pittura, sistema il bagno, la muffa… Io ho chiamato l’Asl, ho fatto la domanda per queste cose, l’Asl dice che la casa non è abitabile, e lui niente. Alla fine sono rimasto bloccato perché non posso andare a cercare un’altra casa, servono soldi. Quindi ogni tre-quattro giorni io e mia moglie facciamo gli spray per togliere la muffa, puliamo il muro ogni settimana con l’acqua e la varechina, due volte a settimana. Quando abbiamo avuto il periodo del Covid siamo stati in difficoltà per pagare l’affitto. Dopo tre mesi il proprietario ha messo, come si chiama, lo sfratto. Ha messo l’avvocato, di qua, di là…. Adesso non mi ricordo le date precisamente. Grazie a Dio io prendo il reddito di cittadinanza, e con quello pago luce, gas, condominio; poi il resto mi basta pari pari, per far mangiare cinque persone, i pannolini, la spesa e tutto. L’affitto qui è sempre stato un problema per noi stranieri. Anche per gli amici italiani.
I servizi sociali cosa hanno fatto?
Ashraf: Io sinceramente avevo speranza, pensavo che l’assistente sociale o [il Dipartimento] politiche abitative… perché una famiglia di cinque persone, con tre minorenni, ha diritto di prendere una casa. Avevo la speranza di questo, prima; però, piano piano, prima mi hanno dato quattordici punti per i tre figli, poi i dieci punti dello sfratto, sarebbero ventiquattro. Con ventiquattro punti non ti danno una casa. E ti dicono che gli ucraini sono arrivati e hanno preso le case di emergenza: ma non è vero, perché ci sono tante case popolari qui chiuse. Per esempio, l’assistente sociale ti dice: “Tu trovati una casa e noi paghiamo per quattro anni l’affitto”. Ma chi ti fa un contratto di casa senza garanzia? Sempre vogliono busta paga, lavoro in regola, garanzia bancaria o garanzia di una famiglia italiana. Chi fa queste cose per te? L’assistente sociale ti dice: “Cercatene un’altra”. Alla fine tu rimani sotto stress, non sai dove vai, se vai sotto un ponte, ti senti paralizzato – una situazione proprio grave. Io pensavo che c’era speranza di acchiappare un lavoro, così pago il vecchio [debito] mano mano e comincio a pagare il nuovo. Adesso davvero non mi concentro più. Specialmente quando ho saputo questo dell’Onu… Io ho visto quella speranza che loro mi danno qualcosa, però come si fa. Ho come perso la guida della macchina, ho perso il volante, non posso più controllare. Davvero.
Secondo te perché?
Ashraf: Se tu vedi gli altri paesi europei, l’Italia è l’unico paese europeo che non è sistemato bene. La maggioranza dei miei amici lavora non in regola; chi è in regola è soltanto part-time, anche se lavora full-time; sempre più il sistema politico non va bene. Negli altri paesi, sinceramente, è molto diverso. Adesso da due anni prendo il reddito di cittadinanza, grazie a Dio, sennò muori di fame. Ma negli altri paesi ti pagano l’ottantacinque per cento dell’affitto… Tutti gli amici che sono andati in paesi come Francia, Germania, Paesi Bassi, quelli c’hanno casa, tutti sistemati, lavorano in regola… Paragonata all’Europa, l’Italia è il terzo mondo. Però tra Egitto e Italia, l’Italia è su. Per esempio, gli studi e la sanità qui, per noi sono a cinque stelle. Da noi proprio zero. Se non c’hai soldi non ti puoi curare, ti lasciano morire. Pure le scuole dei bambini, queste cose…
Hai mai pensato di tornare in Egitto?
Ashraf: In Egitto ci sono circa centocinquantamila giovani laureati che sono in galera. Lì la situazione politica e economica è proprio a zero. L’Egitto quasi quasi fallisce, ha preso tanti debiti per costruire la capitale nuova, fare tutti progetti che non servono a niente, treni elettrici nuovi… L’ultima cosa, ha comprato un aereo da mezzo miliardo, come un albergo: camera da letto, sala riunioni… Intanto il paese muore di fame. Il presidente lavora come se l’Egitto fosse casa sua. Fa quello che vuole. La Germania ha fatto per noi un treno sopraelevato: il biglietto per sette fermate costa trentacinque pound egiziani, come trentacinque euro. La prima settimana era gratis, tutti lo usano. Dopo non lo usa più nessuno. Poi, dopo la guerra in Ucraina, l’elettricità, il gas, queste cose… per risparmiare hanno chiuso questo treno. Hanno fatto un prestito con una banca cinese, con interesse… Ha svuotato proprio la cassa del paese. E così c’è gente molto molto povera, e super ricchi, gente che hanno le Lamborghini, Ferrari. Hanno costruito una zona residenziale nel nord dell’Egitto, vicino El Alamein, dove una villa costa seicentomila euro. Hanno aperto per i pagamenti, le ville sono finite lo stesso giorno. E c’è gente che non è capace di comprare un antibiotico per suo figlio. Che torno a fare. (a cura di stefano portelli)
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