Cominciamo una serie di racconti di persone sotto sfratto a Roma, partendo da quelle i cui sfratti sono stati fermati dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite. È paradossale dover chiamare l’Onu per evitare che persone vulnerabili finiscano per strada. Ma il Comune e le altre istituzioni si permettono di mantenere l’omertà su queste tragedie, approfittando dell’ignoranza diffusa sulle vite e le storie di chi ha perso la possibilità di pagare l’affitto, sia prima che durante il Covid. Queste storie ci insegnano a capire quanto sia ampia e strutturale la crisi abitativa in Italia; ognuna di esse illustra un aspetto diverso di questa crisi, a partire dallo svuotamento forzato del centro storico, fino alla speculazione privata sulle case popolari e sui piani di zona, alla finanziarizzazione degli enti previdenziali e dei beni demaniali, ai quartieri in affitto di proprietà di grandi palazzinari.
La vicenda di Carlo Cusatelli e Loretta Viberti, tra gli ultimi abitanti di una delle zone più prestigiose di Roma, ci aiuta a superare l’idea della “gentrificazione”, cioè di un naturale spostamento di popolazione più ricca che avrebbe scalzato via quella più povera. La crisi abitativa invece è il prodotto degli investimenti di capitale, che trasformano in profitto privato il valore storico e culturale creato da generazioni di abitanti in alcune parti della città. In questo caso, le corporazioni internazionali che aprono i negozi di lusso, e l’Opera Pia che si trasforma in Fondazione e sfratta un pittore storico di via Margutta, fanno profitto sulla fama della zona come strada di pittori e artisti, una fama a cui la famiglia di Carlo e Loretta ha dato un contributo sostanziale. Questo processo di finanziarizzazione, l’esproprio e le espulsioni che ne conseguono, si combattono con tre strumenti: i picchetti contro gli sfratti (a cui invitiamo a partecipare); le battaglie legali (la sospensione dello sfratto ottenuta dall’Onu obbliga Fondazione e Comune a trovare una soluzione); e l’inchiesta rigorosa sulle città, sulle dinamiche politiche, e su come colpiscono le vite degli abitanti.
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Carlo Cusatelli: Io non amo la parola gentrificazione, che è bruttissima nel suono. Comunque il processo di spopolamento degli indigeni è cominciato lentamente, non c’è stata una botta secca. È stato quasi naturale; anche perché c’è una naturale spontanea connivenza tra l’artista e i sòrdi. Mi ricordo le litigate che facevo con mio padre: “Ma te non fai niente per il sociale, non ti esponi per il bene degli altri!”. Io ero molto giovane, e lui mi diceva: “Ma se io faccio… poi chi me li compra i quadri a me?”. Quando partiva per Forte dei Marmi, perché andava lì a vendere d’estate, io l’accompagnavo, gli facevo da pilota, insomma, gli davo una mano sulla trasferta. In autostrada, ci siamo fermati a fare benzina, facevano le interviste dell’esodo delle grandi vacanze, e videro questa macchina particolare, inzeppata di quadri: e lui disse: “Il pittore è come lo sciacallo, andiamo lì a rubare ai ricchi”.
Voi siete entrambi discendenti di famiglie trasferite per gli sventramenti del centro storico.
Carlo Cusatelli: Io sono nato qua, in questo studio all’angolo con via Margutta. Perché mio padre era un giovane pittore, che per sbaglio nacque a Milano, poi crebbe a Bari, era del 1912. Con la grande crisi del 1929, lui aveva diciassette anni, i cinque figli furono spediti in tutta Italia, a studiare; e mio padre, che era il più piccoletto, moriva se non studiava pittura, e fuggì di casa. Si rifugiò a Roma, dove si distinse per essere il migliore studente di Carlo Siviero, un pittore di corte, un pittore molto avviato. Mio padre viveva facendo i ritrattini nelle osterie, una vita molto romantica, molto bohémienne, poi ottenne l’insegnamento in suo nome, prima al Liceo, poi all’Accademia. I primi anni viveva lì dove non esiste più, dove non c’era ancora l’altare della patria, quello che è andato distrutto insieme a Borgo Pio, quando hanno fatto via della Conciliazione, via dei Fori Imperiali. Ha vissuto in entrambi i posti, ma le case sono state demolite per i grandi lavori. E poi occupò qui, perché un collega gli disse: “Guarda Cusatelli, tu sei pittore, questo è uno studio, prenditelo te che il titolare non torna dalla guerra”. E qui ci ha abitato e fatto studio tutta la vita, e sono nati qua i suoi figli, io e altri tre fratelli, siamo in quattro. Poi tante vicende ha visto questo studio, ci hanno abitato i suoi fratelli insieme con altri figli, insomma, era un porto di mare. Era tutto un altro ambiente, non c’era l’acqua corrente, mia mamma andava a prendere l’acqua alla fontana, con quella brocca lì. Poi s’è rotta. Poi mia mamma è morta nel parto di mio fratello, quindi mio padre si è trovato praticamente pittore ancora squattrinato a Roma, con due figli adolescenti, me di un anno e mezzo, e mio fratello neonato in mano. E così io sono cresciuto ai piedi del suo cavalletto. Poi lui con il lavoro regolare in Accademia, negli anni dirottò la famiglia in una casa più civile, una bella casa con giardino, e qui restò il suo studio.
La casa è di proprietà del Vaticano?
Carlo Cusatelli: Erano preti, se non sbaglio, comunque era Vaticano. Il proprietario all’epoca era un’Opera Pia, adesso non esistono più, le Opere pie erano dedicate alla tutela dei più bisognosi. Il palazzo era un lascito all’Opera Pia, “lascito Demetrio Canevari”; mio padre occupò, e in pochi giorni l’Opera Pia regolarizzò il contratto; lui pagava un pro forma, come se oggi uno pagasse venti euro al mese. Tanto che poi quando entrò la famosa legge dell’equo canone, che abbassò a tutti gli affitti di un peletto, a noi ce lo aumentò. Questo per la storia di mio padre. La storia invece che ci riguarda più da vicino è questa trasformazione, in che anno non lo so dire con esattezza, ma l’Opera Pia si trasformò in Fondazione. A quel punto ha cominciato a chiedere i prezzi di mercato. Devo riconoscere che con noi abitanti storici ebbe un occhio di riguardo, perché erano sempre aumenti contenuti. Contenuti, ma sempre inesorabili, di anno in anno.
Loretta Viberti: Voce di popolo, qui si dice comunque che gli sfratti maggiori in centro siano tutte proprietà del Vaticano. Come un po’ è anche la nostra.
Tu invece come sei arrivata?
Loretta Viberti: Quando io sono entrata, trent’anni fa, noi pagavamo 365 mila lire: era un affitto gestibile. Abbiamo dei frammenti della nostra storia che non riusciamo a ricostruire bene… ci siamo incontrati nel 1977, all’occupazione di via dell’Orso; io ero nel movimento per la casa, con altri compagni; andavo a scuola al Gioberti, a corso Vittorio, piazza Navona, si facevano le riunioni al Mamiani, c’era un coordinamento di studenti molto forte, compatto, si faceva teatro. Ragioneria non era la scuola che avrei dovuto scegliere, lo feci sull’impronta di mio padre. I miei nonni erano dei romani doc; mio nonno prima della guerra viveva al ghetto, e mia nonna era di Campo de’ Fiori; poi si trasferirono a piazza Irnerio, perché qui si cominciava a sfasciare tutto, da via della Conciliazione, Roma era presa da un cambiamento troppo grande per loro, quindi si sono allontanati. Ma per loro piazza Irnerio era campagna. Ha aperto il suo bar, poi ha fatto il tassista per tanti anni. Hanno proprio chiuso i ponti con il centro; lo rivendicavano, però erano felici di stare meglio. Totalmente diversi da noi. A me non interessava andare a fare shopping a via Frattina… Io cercavo altre risorse, la casalinga non la volevo fare. Quello che ho privilegiato è stato il teatro, in un periodo in cui c’erano anche molti finanziamenti per il teatro di ricerca, di avanguardia. Ho lavorato con Barberio Corsetti, ex Gaia Scienza, un nucleo di tre persone che nascevano dai collettivi studenteschi, e che erano un po’ la nostra avanguardia teatrale. C’erano realtà che arrivavano da fuori, il Living Theatre… ero affascinata anche da quello. Poi ho fatto anche scenografia.
Vi siete conosciuti durante il movimento?
Carlo Cusatelli: Nel ’68 io ero ancora ragazzino, avevo quattordici anni, feci i primi cortei, occupazioni del liceo; il ’77 l’ho vissuto più in prima persona. Ho tentato le militanze in tutte le formazioni della nuova sinistra, da Lotta Continua a Potere Operaio, più avanti mi avvicinai a Lotta Comunista, che mi voleva assumere a tempo pieno, avrei ricevuto anche uno stipendio su base operaia, da metalmeccanico. Soltanto che io gli proposi il part time: perché io riconosco la necessità di una liberazione collettiva, quindi il partito, l’organizzazione eccetera, però non posso rinunciare alla mia liberazione individuale, che significa fare arte. Loro dissero: “No, abbiamo bisogno di uomini a tempo pieno”. Nel ’77 non si usavano le occupazioni per single, per i giovani. Tutto il movimento in generale sosteneva le occupazioni per le famiglie, per gli sfrattati; però noi dicevamo: “E a noi giovani niente? Anche noi vogliamo andar via di casa, stare per conto nostro, stare insieme”. E occupammo un gioiellino a via dell’Orso 88, tra il Tevere e piazza Navona, vicino alla famosa Osteria dell’Orso, che è un ristorantone di lusso. Era vuoto da tre anni, erano tre fratelli che non si mettevano d’accordo. Noi entrammo una notte in pieno ’77, e trovammo la luce attaccata, l’acqua corrente, i pavimenti con la cera… Era tutto una scala che saliva per tre piani, ognuno aveva la sua stanza… fu un porto di mare, bellissimo, con esperienze artistiche anche di spessore. Una sorta di centro sociale ante litteram. È stato sgomberato dopo un anno e mezzo, anche se il processo proprio non me lo ricordo. Dopo lo sgombero di via dell’Orso feci un patto con mio padre: visto che lui nello studio ci lavorava di giorno – mio padre era pittore naturalista, quindi con la lampadina non si lavorava, era finita la giornata – gli chiesi se potevo utilizzare lo studio la sera, la notte. Sistemai, feci un soppalchetto, e non so per quanto tempo stetti così. E la notte qua è diventato un bel salotto, con tutti i reduci di via dell’Orso, altri compagni, altri amici… e fu un bel periodo. Quindi io da qui non sono mai uscito, in realtà.
E il quartiere com’era?
Loretta Viberti: Quando frequentavo Carlo che eravamo più giovani, non stavamo ancora insieme, questa via era diversa. I pittori andavano per strada a dipingere.
Carlo Cusatelli: Fammi raccontare l’esperienza di mia mamma. Io ero appena nato, e mia madre si lamentava con mio padre che questa casa era scomoda, senz’acqua… Allora mio padre fece la domanda per l’assegnazione di casa popolare, e gliela assegnarono a Garbatella. Buttala via, adesso! Mia madre, tutta contenta, andò a vivere a Garbatella. Ecco, non so quanti giorni resistette, forse qualche settimana. Poi, in lacrime, volle tornare qua. Perché, dice, “Lì chi conosco? Se li conosco mi parlano dei pupi, del marito che se ’mbriaca… no no no”. Qui c’è un terrazzo che prende tutto l’isolato, che era aperto, lei si incontrava con le mogli degli altri pittori, degli altri artisti, andavano a stendere i panni al sole… C’erano artisti di tutto il mondo: c’era Pecoff, mi ricordo questo nome; c’era Ostracan, romeno, che vivevano qua perché all’epoca costavano anche poco gli studi di via Margutta. Insomma, c’era una vita: il mito di via Margutta come “via degli artisti” era vero.
Quando ha iniziato a cambiare?
Carlo Cusatelli: Mi ricordo come un piccolo trauma, che ero già più grandicello, che in via Margutta aprì un negozio della Carnaby Street, che vendeva tutte cazzatelle alla londinese, le pecette, le cose, le scarpette. Tutti gli artigiani di via Margutta rimasero sconvolti. E poi sono andati via sia gli artisti che gli artigiani, perché via Margutta era strada di lavoratori, o artigiani. La fiera di via Margutta, che oggi senza offendere nessuno è una fiera di “croste”, all’epoca era stata inventata dagli artisti che vivevano qua, che stavano qua, che portavano i quadri spontaneamente. C’era anche una rete di vendita molto locale: una signora che abita qui di fronte, casa di proprietà a palazzo Paola, quando mi incontra mi dice: “Io ho ancora i ritratti che ha fatto tuo padre cinquant’anni fa”. Lei era insegnante, poteva comprare dal vicino. C’era uno scambio.
E poi, arrivò gente più ricca a vivere qui?
Carlo Cusatelli: Sono arrivati i soldi, non so che razza di soldi sono e da dove vengono e come, ma comprano. Io credo che lo spopolamento degli abitanti storici sia dovuto soprattutto all’ingresso di capitali: capitali esteri, capitali grossi, o per i negozi o per i bed & breakfast. Arrivarono le multinazionali dello shopping. Arrivarono i prezzi alti. Lo spostamento della fauna autoctona qui è di lunga durata. Quello che sta accadendo nelle periferie storiche, da San Lorenzo a Pigneto, a Centocelle, che diventano luoghi scicchettosi, qui cominciò molto prima: cominciò dal cuore della Roma storica, che prima era un posto normale, dove viveva gente un po’ speciale.
Ma non sono gli abitanti stessi che affittano una stanza o una casa…
Loretta Viberti: No! Rinnovano palazzine intere: una ce l’ha Achille Bonito Oliva, qui a via Margutta – il critico d’arte, lo conosci, no? Ha comprato la palazzina e l’ha adibita a bed & breakfast, costosissima. Lui non vive qui, assolutamente no. Sono gli investimenti che sfasciano tutto: sono investimenti di grandi capitali, soldi stranieri, capitali, soldi, soldi. Per esempio, si sono comprati una ventina di negozi qui a via del Babuino, e il chiosco di piazzale Flaminio, quello con l’orologio sopra. Qui si comprano le palazzine intere. Gucci, da quanti anni c’è, lì all’imbocco di via Condotti? Vent’anni? Anche meno, però ci sono prezzi altissimi. È proprio un quartiere che viene sfruttato al massimo durante il giorno, poi tu esci la sera e non c’è più nessuno in giro. Noi abbiamo giusto conservato le poche conoscenze e amicizie qui nel palazzo, ma anche questo si sta svuotando. Se n’è andato un gran poeta, Vito Riviello, lui era di qui, erano quarant’anni che ci stava, stava proprio su via del Babuino, ma non riusciva più ad andare avanti per gli affitti. Abbiamo incontrato la moglie al funerale, lei era addoloratissima del fatto di dover lasciare questo luogo. Quello è stato venti anni fa, quindi è stata sempre molto lenta la cosa. Adesso è evidente: dopo il Covid, anche famiglie molto più avvantaggiate di noi hanno chiesto una riduzione dell’affitto. In questi ultimi due mesi se ne sono andate due famiglie. L’ultima che è uscita, stava portando via le scatole in questi giorni. Non volevano più pagare milleottocento euro per un piano rialzato in questo palazzo, dove la muffa arriva… Adesso sono andati a vivere a Casalotti. Quella che se n’è andata poco prima di loro, qui al pianerottolo sotto di noi, anche loro sono a Boccea. E questo è avvenuto nell’ultimo mese.
Quindi anche voi a un certo punto non avete più potuto pagare l’affitto.
Carlo Cusatelli: Come dico io, i soldi non sono mille, duemila, tremila o un milione, ma sono due: quelli che ci hai e quelli che non ci hai. Siamo arrivati fino a settecento, ottocento euro, quant’era che chiedevano? E io non ce l’avevo, non è per sfida, per spocchia o per menefreghismo; non ce l’avevo, basta. Siccome non mi so vendere, come artista, sono un disastro dal punto di vista delle relazioni, non è il mio mestiere proprio… è il sistema dell’arte volto al mercato, in cui l’artista da solo non può esistere, c’è quanto meno la triade artista/sovrintendente/
E com’è andata, da quando avete smesso di pagare?
Loretta Viberti: È stato un precipizio. Ma proprio di salute, di disagio. Cioè, io non avevo mai frequentato una mensa dei poveri, è stato un bel trauma. Riesci proprio a stare male, non fai niente. Carlo è stato come in un letargo, di autodifesa, per circa quattro anni, più o meno. Io in questi giorni sto dimenticando le date: ma ci sono stati due sfratti, almeno. Uno che abbiamo onorato con i soldi, perché avevamo dei risparmi; ma questo anni e anni fa, siamo arrivati in Tribunale. Poi abbiamo avuto il contributo del Comune, ma eravamo già in crisi economica pazzesca, perché glie l’ho dati a loro tutti i soldi che avevamo, ma tanti. Tanti. E quindi poi siamo rimasti senza nulla.
L’avete vissuto anche con senso di colpa, di aver sbagliato qualcosa?
Carlo Cusatelli: No. Io senso di colpa, o di aver sbagliato, no; perché me lo sono scelto abbastanza consapevolmente, so in quale abisso stavo andando a cadere. Però non mi sentivo molte alternative, non era proprio nella mia pelle fare altre scelte. Avevo carriere aperte davanti, nel giornalismo, “occasione più unica che rara, la tua”, mi venivano a dire. Però all’epoca ero ancora abbastanza giovane, scendevo in piazza all’Università per tirare giù il palco di Luciano Lama, e in redazione mi chiedevano di fare le lusinghe ai sindacati confederali. Non posso vendermi così separato da me stesso, che di mattina faccio l’indiano metropolitano e poi la sera vado a scrivere per Caracciolo. Non ce l’ho fatta. E così altre cose. La coscienza politica aiuta, aiuta, perché te ne fai una ragione. Non ti senti in colpa; ti senti semmai vittima, testimone non colpevole di una vicenda collettiva, direi universale. Quindi no: mi sento in ottima compagnia. (stefano portelli)
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