Dal nuovo numero (n.8 / maggio 2022) de Lo stato delle città
MORIRE, MANGIARE
Lo scorso inverno ha fatto scandalo il video postato su Tik Tok del compleanno, il sessantaseiesimo, di Rosina Bevilacqua. La particolarità del filmato è che il tavolo con la torta e le candeline è stato allestito dai familiari sul cimitero di Poggioreale, davanti alla tomba della festeggiata, deceduta l’anno prima. Il consigliere regionale Emilio Borrelli, castigamatti degli abusi e degli usi popolari sul territorio campano, ha subito postato le immagini su Instagram, invocando rispetto per quel luogo sepolcrale. Non è mancato il commento di qualcuno che ha chiesto se la morta alla fine avesse spento le candeline, e insieme a varie altre ilarità sono fioccate le critiche contro i guardiani che avevano permesso tutto questo. Immoralità, primitivismo e illegalità sono in genere le accuse che la borghesia napoletana rivolge a quella parte di città che vive al di fuori delle regole. Però si omette di notare quanto gli irregolari siano esclusi dai diritti essenziali, e quanto illegalità e marginalità siano strettamente connesse. Senza arrivare alle questioni politiche e sociali, soffermiamoci su alcune implicazioni che il caso in questione porta a galla.
Il concetto di morte è cambiato radicalmente nel mondo occidentale, sia a causa dei progressi della medicina, la quale ha stigmatizzato il trapasso e l’agonia come spettacoli immorali, sia per la celebrazione della felicità del vivere, tanto necessaria al dominio della merce come soluzione per la sopravvivenza. L’antropologo Geoffrey Gorer ha scritto in La pornografia della morte che “i processi naturali della corruzione e del decadimento del corpo sono diventati disgustosi, tanto quanto lo erano un secolo fa i processi naturali della nascita e della copulazione”. Così, a partire dal XX secolo, i bambini prendono consapevolezza della funzione riproduttiva, mentre è un tabù parlare con loro della morte. A chi va in vacanza in Messico capita spesso di assistere alla celebrazione del giorno dei morti con dei picnic consumati nel cimitero, durante i quali i familiari offrono una parte del cibo anche ai loro defunti. A Palermo, il pupacennu è il dolce consumato nello stesso giorno della celebrazione del primo novembre, mentre il cunsulatu siciliano, o il consuolo napoletano, abbinano il consumo rituale del cibo alla veglia funebre dei propri cari. Nel finale dei Fratelli Karamazov, il capitano Snegirëv sbriciola sulla tomba del figlioletto defunto, Iljuša, una crosta di pane come gli aveva chiesto il bambino “perché i passeri ci volino sopra: sentirò che sono venuti e sarò contento di non essere da solo”. La stessa pratica viene annunciata alla fine del romanzo da uno dei protagonisti, Alëša, dopo il funerale dello stesso bambino, quando invita tutti i suoi amici a mangiare le frittelle in memoria del defunto, senza giudicare scandalosa quella che è un’antica usanza.
Questi esempi ci dicono che il cibo e il lutto non sono sempre stati in contrapposizione, tale relazione persiste ancora nella tradizione popolare. È piuttosto la cultura borghese, col suo mito-bisogno di modernità, a contrapporsi ai rituali popolari che vuole sovvertire, e quindi anche all’accettazione della morte come evento naturale e ineluttabile, inscritto nella vita stessa. Così facendo e giudicando, non si fa che agire entro una coltre di ignoranza con la prepotenza e il moralismo di chi detiene i linguaggi, i codici e le strutture del potere. Forse per questo mi viene in mente la definizione che Pasolini fa degli italiani quando dice: il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante.
MORIRE, RAFFIGURARE
Si è parlato molto del caso del quindicenne Ugo Russo, ucciso nel 2020 da un carabiniere fuori servizio mentre cercava di rapinarlo con una pistola giocattolo. Ora la ricostruzione dei fatti è stata soppiantata dalla querelle mediatica sul murale che commemora Ugo Russo, disegnato sulla facciata di un edificio dei Quartieri Spagnoli, quartiere nativo del ragazzo. Dopo Russo c’è stato il caso di un altro ragazzo, Luigi Caiafa, diciassettenne ucciso in un conflitto a fuoco con la polizia, anche lui aveva una pistola giocattolo. Caiafa è stato celebrato con un murale nel suo quartiere, ma dopo pochi giorni il suo volto è stato cancellato per ordine delle autorità. La motivazione era che il dipinto inneggiava al crimine e alla camorra. Il perché inneggiasse alla camorra, lo si è capito dopo alcuni mesi, quando il padre di Caiafa è stato ucciso in un agguato in casa sua, mentre si faceva tatuare. Il murale di Ugo Russo invece è ancora lì e questo dipende dal fatto che alcuni cittadini, familiari in testa, hanno voluto condurre una lotta. Questa lotta è ancora in corso e sta resistendo contro l’accanimento della borghesia locale. La borghesia dell’ordine contro il disordine vuole cancellare il segno di ciò che essa ritiene camorristico, sebbene Russo sia stato ucciso nel compimento di un reato, forse il primo. Problemi di contiguità con la camorra? Ma cosa è la camorra? È la povertà? La criminalità dei poveri non è sempre una rivolta, ma è anche rivendicazione dei diritti, del benessere, della parità; ignorare questo è ipocrita, serve solo a consolare i giustizialisti – che non sono i sostenitori della giustizia sociale. Così l’immagine di Ugo Russo ha fatto più notizia del suo corpo, del suo corpo travolto da un’autodifesa eccessiva, più notizia della condizione di troppi giovani nella nostra città, che nemmeno quando muoiono violentemente sollecitano le istituzioni, se non quella giudiziaria, a esprimersi. Bisognerebbe iniziare dall’ingiustizia sociale, e non lo si fa, malgrado le scandalose carenze di misure di prevenzione e di formazione che mostra lo stato a riguardo. Meglio stare sul piano delle immagini, allora, in un’iconoclastia narcisistica che potrebbe essere un segno del nostro tempo dominato dal visuale, ma che è, invece, solo un’espressione della tensione sociale. Da una parte ci sono i giovani allo sbando, senza riferimenti se non il denaro, la droga e il divertimento, dall’altra chi, nel migliore dei casi, chiede ordine e regole ma non si prodiga per stabilirne i presupposti. Un conflitto di classe senza l’autorganizzazione di una delle parti, quella dei giovani poveri rimasti senza alcuna rappresentanza, isolati da chi ha il potere e le capacità di creare dei cambiamenti positivi per loro. Una lotta di classe impari, al passo con i tempi, che usa le immagini per trascurare la sostanza, che lancia un unico messaggio assordante e mediatico, quello riguardante i simboli. Ma chi si fa soggiogare dai simboli e crede ciecamente in essi esprime un animo primitivo: malgrado il benessere e l’istruzione, segue quel modello di sviluppo a cui è necessario aderire per essere inutilmente moderni. Ritorna così l’adagio pasoliniano di un popolo analfabeta (e si potrebbe dire che oggi è stato alfabetizzato solo per quanto gli serve a consumare) e di una borghesia ignorante (e si potrebbe dire che viene istruita solo per essere collocata nel sistema dello sviluppo senza progresso).
MORIRE, DIMENTICARE
Sulla scia del dibattito mediatico sui murales che inneggerebbero alla camorra, c’è stato il caso di Salvatore D’Aniello, un trentanovenne, trovato morto nell’ospedale Loreto Mare. Salvatore era stato sottoposto a un trattamento sanitario obbligatorio richiesto dai carabinieri a cui si era rivolto in preda a uno stato di paranoia acuta. Il giovane era in cura presso una comunità del nord e si trovava in permesso a Napoli quando è stato vittima della crisi. Il 18 giugno 2021 Salvatore è stato rinvenuto senza vita dagli infermieri dell’ospedale, era ricoverato lì da dieci giorni, il decesso forse è dovuto a una terapia farmacologica sbagliata. I genitori, ai quali è stato impedito di visitare il figlio a causa delle misure anti-Covid, hanno chiesto l’intervento della magistratura, la quale ha aperto un’inchiesta, l’ennesima in una fase di grosse carenze del sistema sanitario. Anche nel suo caso, gli amici del quartiere hanno deciso di immortalarlo in un murale, conoscendone la vita travagliata a causa dell’abuso di droghe e dei problemi psichiatrici. Hanno seguito la moda dei ritratti sul muro in una città dove quasi ogni mese i quotidiani annunciano la realizzazione di un nuovo murale che ritrae un personaggio famoso. Così hanno immortalato il piccolo alla maniera del grande. Nel saggio Davanti al dolore degli altri, Susan Sontag ha scritto a proposito delle immagini della morte in una chiave che mette in luce il cinismo con cui le commentiamo senza tenere conto che anche i familiari delle vittime le stanno guardando. L’uso documentario delle immagini su guerra e violenza ci fa dimenticare ogni tipo di pietas, rendendoci consumatori di un evento tragico. Così è stato anche per il murale di Salvatore D’Aniello, imbrattato dopo alcuni giorni con la scritta “Vaffanculo camorra” a opera di ignoti. L’isteria iconoclasta contro i murales dei defunti per cause tragiche, sobillata da un dibattito sordo e superficiale, si è scatenata sulla vittima di un caso di malasanità. Il ritratto è stato interamente coperto con della pittura bianca per eliminare l’affronto, gli amici e i parenti hanno preferito così. Qualcuno vociferava che sarebbe stato ridisegnato, ma la figlia di D’Aniello, una ragazzina di quattordici anni, ha deciso di no: le faceva troppo male vedere il volto di suo padre ogni volta che passava di là. Intanto, il busto commemorativo del giovanissimo boss Emanuele Sibillo è stato rimosso dall’edicola voluta dalla madre nell’androne del palazzo dove risiede. Oggi è esposto nel Museo Criminologico di Roma, dove è possibile ammirarlo. (maurizio braucci)