“Sindaco, problemi?”.
Il primo cittadino guardò l’interlocutore, lasciò perdere la pagina di giornale che lo teneva impegnato. Il volto era bianco, senza vibrazioni. Il gelo calò nella sala dei Baroni. Dal suo scranno il sindaco volse lo guardò in giro, poi sussurrò: “Sì, non è niente. Andiamo avanti”.
“All’ordine del giorno c’è l’affidamento della ristrutturazione del cimitero delle Fontanelle a Renzo Piano”.
Renzo Piano ha scelto Napoli. E all’interno della cinta urbana ha scelto il Rione Sanità. E dentro quella periferia interna alla città, nel Rione che ormai da anni ha rialzato la testa, la sua attenzione si è concentrata su una zona ancor più tormentata, quella che conduce al Cimitero delle Fontanelle. Qui, nella parte più interna della Sanità, nella “periferia della periferia”, l’architetto e senatore a vita Renzo Piano coordinerà il lavoro di giovani professionisti chiamati a progettare lo spazio prospiciente il Cimitero, a trasformare quel non-luogo in una piazza. (bianca de fazio, repubblica napoli, 19 maggio).
Renzo Piano punta sulla Sanità e il cimitero delle Fontanelle, chiuso dal marzo del 2020. L’area che dà sul famoso ossario diventerà punto di aggregazione, snodo di socialità e simbolo di rilancio: l’archistar genovese, senatore a vita, da tempo ha promosso “G124”, un gruppo di lavoro che ha come finalità lo studio di interventi sulle periferie e il futuro dei centri cittadini, azioni di “rammendo urbano” come li ha definiti lo stesso Piano. (giovanni chianelli, il mattino, 19 maggio).
“Sindaco, a lei la parola. Sindaco?”.
“Beh, cosa c’è da dire… mi pare dica tutto già il progetto. Andiamo avanti”.
“Bene. Sindaco, il prossimo punto all’ordine del giorno è a lei molto caro. La malamovida”.
Droga facile, alcol a fiumi e ragazzi sballati senza freni. La movida infernale di Mezzocannone getta nello sconforto i cittadini. “Forse l’unica soluzione per evitare scene agghiaccianti è andare via”, dicono nelle chat. “Sono uscito di casa alle 23 – racconta ancora scosso un residente dei Decumani –, due minorenni super sballati facevano sesso sul marmo di accesso al nostro portone. Li ho guardati fissi senza proferire parole: guardavano nel vuoto, bambini sopraffatti dalla droga. Mi hanno guardato senza dire niente, erano in pieno stato confusionale. Sono andati via. Quando sono rientrato davanti al mio palazzo c’era una schiera di ragazzi pronta a vendere droga, con i quali ho parlato inutilmente. Non è più casa mia, non è dove voglio stare”. C’è chi poi vorrebbe evitare al padre anziano “la puzza di hashish che entra dai balconi già dal pomeriggio. Qui la situazione è fuori controllo e nessuno fa niente. Ragazzi in coma etilico, che si drogano mentre la criminalità si arricchisce. E le istituzioni stanno a guardare…”. (annalaura de rosa, repubblica napoli, 16 maggio).
Ma è una vergogna – disse il sindaco –. Qua qualcuno dovrebbe fare qualcosa”. “Appunto!”, dissero i consiglieri d’opposizione lasciandosi andare a risate sguaiate. Il sindaco si girò verso di loro, per un attimo sembrò intenzionato a replicare, poi guardò di nuovo il giornale. “Andiamo avanti, questa non la possiamo risolvere così”. Il presidente del consiglio era sempre più sconfortato. “Sindaco, ora discutiamo della manifestazione sul lungomare che dovrebbe esserci a giugno”.
Dal 27 maggio al 5 giugno riflettori puntati su una kermesse (sponsor comune di Napoli, Regione Campania, ministero per le politiche agricole) dedicata a quello che Basilio Puoti definì “pesce in salato che ci vien d’oltremari”, vale a dire baccalà in tutte le salse, stand, cucine vista mare, degustazioni, gala dinner, musica a palla e l’inevitabile show cooking, cioè quell’evento in cui un cuoco più o meno famoso insegna a preparare dal vivo un piatto squisito che nessuno poi a casa sarà in grado di replicare. (antonio fiore, corriee del mezzogiorno, 19 maggio).
“Baccalarè? A me il baccalà non piace tanto”, disse il sindaco. “Sì, ma non è pertinente. Sindaco, questi bloccano la città per una settimana. I permessi?”. Il sindaco alzò le mani: “Fate voi, oggi per me non è cosa”. L’uomo si alzò, prese il giornale e lasciò la sala. Salito sulla prima vettura disponibile pregò il tassista di tacere e continuò la lettura.
Ci sono varie tipologie di sindaci. C’è il sindaco sceriffo, faccio tutto io. Quello promettente, sto lavorando per voi. O quello lagnone, oddio, oddio, qui mi abbandonano tutti. Mancava il sindaco passante. Ma a Napoli sta provvedendo Gaetano Manfredi. Il sindaco-passante non nega i problemi, non contesta il disastro dei trasporti o il fatto che la città sia sporca, e neanche che la movida sia rimasta fuori controllo o che la criminalità organizzata continui a controllare buona parte del territorio. Il sindaco-passante annota tutto questo e, quasi con nonchalance, ne prende atto. Manfredi, che gode di un credito personale ancora molto alto, comincia a incarnare proprio quest’ultima tipologia di sindaco. Per giunta, lo sta facendo con sempre maggiore evidenza, lì dove, invece di annotare le criticità, dovrebbe iniziare a risolverne qualcuna. (marco demarco, corriere del mezzogiorno, 15 maggio).
“Ma tu vedi che lingua lunga questo Demarco”, pensava il primo cittadino. “Sindaco, pagate con carta o contanti?”, gli chiese il tassista. “Non lo so, pure voi ora mi affliggete con queste domande?”. E continuò la lettura.
Il fatto è che a sette mesi dalle elezioni, il motore dell’amministrazione ancora non gira come dovrebbe. Ciò succede per una semplice ragione: perché c’è una differenza abissale tra un sindaco e un passante. Per certi versi, è la stessa che c’è tra l’essere e il divenire. Il sindaco è. Il passante è già altrove. Il sindaco-sindaco ha il dovere di essere qui, ora, e di non perdersi nel labirinto di una politica politicante. Ma di recente Manfredi sta facendo anche altro. Sta rispolverando vecchie pratiche di impronta antropologica, come quando i cassonetti dell’immondizia tracimano, il servizio di raccolta latita e sotto accusa ci finisce inevitabilmente il carattere dei napoletani”.
Tornato a casa, la moglie gli sorrise. “Caro, sei tornato prima del solito. Giornata dura?”. Il sindaco lasciò la fascia tricolore in anticamera, indossò le ciabatte e un comodo pigiama. Erano le 15. Continuò a sfogliare il giornale. Stava per tuffarsi in un altro editoriale quando il telefono squillò. La moglie si avvicinò pochi istanti dopo: “Caro, è per te. Urgente”.
“Pronto?”.
“Sindaco, sono Marco Demarco”.
“Ah, salve. Proprio lei. Chi le ha dato il mio numero?”.
“Dimentica il mio ruolo”.
“No, certo. Ho letto il suo editoriale. Così io sarei un passante?”.
“Chiamavo proprio per questo. Non si faccia intimorire dalle mie parole. Le siano da sprone. Lei può finalmente aprire una stagione politica a Napoli dopo dieci anni di paste cresciute”.
“Forse ho capito che intende…”.
“Sindaco, la mia è una telefonata da amico”.
“No, Demarco. Vediamoci domattina alle 6 al parcheggio Brin, porti un padrino. All’arma bianca. Regoliamo la vicenda così”.
La moglie del primo cittadino sentì tutto e fu presa da un moto d’orgoglio e da un fremito di passione sopita per anni. “Hai fatto bene, amore”, gli disse passandogli una mano tra i capelli. Nelle ore successive il sindaco cercò di non pensare. Respinse le telefonate insistenti di funzionari, disoccupati, giornalisti, assessori. Si concentrò sul duello, lo sognò a occhi aperti, poi provò a riposare.
Alle 4 fu in piedi e pochi minuti dopo raggiunse in strada il suo padrino, il giovane consigliere comunale di maggioranza Tony Lacero. Alle 5:30 i due arrivarono al parcheggio Brin. Il sindaco fumava nervosamente, nessuno nei paraggi. Pochi istanti dopo Demarco si presentò, accompagnato da una delegazione di studenti del Suor Orsola Benincasa ai quali stava per offrire una lezione definitiva. Il duello durò 48 minuti: nei primi 47 minuti i due si studiarono, si guardarono, ci fu qualche sorriso di circostanza, un ampio gesto da parte del sindaco, uno starnuto di Demarco che aveva tolto il soprabito. Poi si passò alle offese: Demarco accusò Manfredi di crogiolarsi nei rapporti di potere e di badare poco alla macchina amministrativa, Manfredi definì l’avversario con una sola irripetibile parola. Demarco rimodulò il registro, chiese notizie sulle municipalità. Manfredi mise in mezzo i parenti. Demarco gli diede infine del “passante”, provocando l’azione. Il fendente del sindaco aprì uno squarcio sul monogramma della camicia dell’avversario. Demarco, ferito lievemente, rispose con un calcio dissennato e potente che costrinse i padrini alla sospensione del duello e alla squalifica del giornalista per condotta inappropriata. “Sarà per un’altra volta”, disse il sindaco zoppicando.
Il sole stava sorgendo, i primi dipendenti Anm che arrivarono riconobbero il loro primo cittadino e agitarono il cappello in segno di rispetto.
Fine.
Tony Lacero ha ora 44 anni, sei figli. Nel 2024 è stato condannato per falso in atto pubblico a cinque anni di reclusione con pena sospesa. Ha un incarico minore in una fondazione che si occupa del recupero di minori a rischio.
Dopo il duello gli studenti del Suor Orsola tornarono a casa e fecero in blocco domanda di iscrizione ad altri atenei.
Marco Demarco ha poi fondato Dopodomani, rivista quadrimestrale di approfondimento politico. È il biografo ufficiale del Presidente della Repubblica.
Il sindaco passante è al terzo mandato. (a cura di davide schiavon)