È stata un’estate movimentata, quella che si va concludendo, sul fronte balneare. Su tutto il territorio nazionale, ma in particolare nel napoletano, le questioni legate alla scarsità di spiagge fruibili a tutti gratuitamente, agli abusi dei concessionari privati dei lidi, al paradosso della più grande città di mare del paese che non offre adeguate possibilità di fruizione delle spiagge ai suoi cittadini, sono esplose in tutta la loro forza.
Naturalmente, ora che la stagione si avvia alla conclusione, gli spazi sono meno congestionati, e l’attenzione della stampa (che ha riportato all’opinione pubblica le vicende più imbarazzanti) va scemando, il rischio è che del diritto violato al mare per tutti non si parli fino alla prossima primavera.
Nel corso dei prossimi mesi proveremo a dar voce agli attivisti e le attiviste che da anni si battono per un cambiamento delle normative e per il rispetto delle regole esistenti, perché l’attenzione su questa cruciale questione sia alta non soltanto nei mesi di stagione balneare e perché le lotte (e i diritti) per un mare libero e gratuito arrivino a conoscenza di tutti.
La prima intervista è a Claudia Vellusi, avvocato e componente del direttivo dell’associazione Mare Libero.
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RR: La sensazione è che quest’anno la questione legata al diritto negato al mare abbia rotto il muro degli “addetti ai lavori” e che anche i cittadini comincino a non poterne più. Cosa è successo di nuovo?
CV: Sicuramente una stratificazione: ci sono realtà che stanno lavorando da anni per portare all’attenzione della politica questo tema. Le associazioni si sono mosse e hanno sollevato in ogni sede le evidenti criticità, gli utenti si sono stancati di essere discriminati. Poi il Covid ha dato il colpo di grazia, perché il cittadino-bagnante si è visto restringere ulteriormente la possibilità di accedere al mare. Inoltre l’Italia è entrata a livello europeo nell’occhio del ciclone per la sua gestione delle spiagge. Il modello di gestione adottato finora produce un grosso lucro da parte di pochi gruppi imprenditoriali a discapito dei cittadini, costretti a pagare prezzi elevatissimi per fare un bagno, e dello Stato, che percepisce canoni irrisori dai gestori. In tante parti d’Italia, soprattutto in Campania (ma mi viene in mente, per esempio, anche la Liguria, con problemi simili), vi è una grossa criticità: dove fino a dieci anni fa riuscivi comunque a fare un bagno oggi non riesci più neppure ad accedere alla spiaggia, frapponendosi cemento, cancelli e recinzioni ovunque; penso a luoghi come la Costiera Amalfitana e Sorrentina, la zona flegrea, o Napoli, che è una città di mare i cui punti di accesso alla spiaggia libera sono inavvicinabili.
Con la crisi economica, la capacità di spesa minore da parte delle famiglie, le linee guida per il contenimento dell’emergenza Covid che hanno portato i Comuni ad adottare provvedimenti assurdi di limitazione di accesso alla spiaggia (tra l’altro infondati, perché il Covid non si è mai diffuso in spiaggia, anzi forse proprio nei luoghi all’aperto ha trovato la sua fase di recesso) la situazione è diventata una ghiotta occasione per limitare ancora di più la possibilità di accedere liberamente al mare. Un ruolo l’ha avuto anche l’attenzione mediatica sollevata dalla Commissione Europea con la contrarietà rispetto all’affidamento ai privati delle concessioni a uso esclusivo su beni demaniali con proroghe automatiche (escludendo chiunque altro dalla possibilità di accedere a questo “privilegiato” sfruttamento di un bene pubblico), che nella ratio della norma italiana dovrebbe essere una eccezione, mentre nei fatti sugli ottomila chilometri di costa italiana due terzi vengono dati in concessione a privati.
La legge approvata ad agosto (DDL concorrenza) prevede la necessità di un “adeguato equilibro” tra aree libere e in concessione, ma in realtà si tratta di una norma che esisteva già e che risale alla fine degli anni Novanta, poi riconfermata nel 2006 con una Finanziaria. Ma che significa rapporto adeguato? Senza un riferimento percentuale minimo da riservare alle spiagge libere: nulla. Infatti, si è verificata una situazione di squilibrio notevole a favore dei concessionari quasi ovunque in Italia. In questo senso le clamorose infrazioni e l’attenzione portata sul tema dalla Commissione Europea hanno reso evidente il problema agli occhi della cittadinanza. E quindi sono venute fuori ancora più di prima quelle giuste rimostranze che si muovevano già da tempo, con meno risalto, essendo state del tutto escluse le associazioni ambientaliste e di tutela dei cittadini dalle discussioni parlamentari su questi temi.
RR: La Commissione Europea ha più volte espresso all’Italia la necessità di una riforma…
CV: Questo problema si trascina da vent’anni, subito dopo l’approvazione della direttiva Bolkestein, nel 2006, che dichiarava illegittime le proroghe senza gara delle concessioni su beni pubblici limitati. In quel momento comincia a farsi strada la necessità di procedere a una riforma del settore, con l’obbligo per i Comuni (l’amministrazione che gestisce le spiagge) di mettere a gara le concessioni demaniali di volta in volta. Questa però viene rinviata di anno in anno, giustificando tale rinvio con la necessità di adottare una riforma organica che non arrivava mai in discussione. Nel frattempo i vari governi hanno continuato a prorogare automaticamente le concessioni, senza che siano mai stati adottati piani regionali né zonizzazioni in tema di canoni. Gli imprenditori si tramandano le concessioni balneari come fossero un patrimonio privato di famiglia. Le Regioni avrebbero dovuto approvare dei piani demaniali distinguendo le zone in base al loro pregio e valore: è chiaro che certe aree per esempio della Sardegna o di Posillipo non potevano avere lo stesso canone demaniale di una spiaggia situata in zone di minor pregio. Tuttavia, quasi nessuno ha provveduto a delineare questi piani demaniali, la Campania men che meno, anche perché questo avrebbe costretto a una verifica dello stato delle concessioni e poi a un aumento dei canoni concessori in quelle zone considerate di maggior pregio.
La legge approvata nel 2006, che non è altro che un annuncio di decreti che non sono mai arrivati (perché nel frattempo si autorizzavano le proroghe), è bastata alla Commissione Europea per ritirare la prima procedura di infrazione (avviata nel 2008). Va segnalato che il nostro parlamento conta un numero elevatissimo di persone direttamente interessate a vario titolo dalla gestione degli stabilimenti balneari. Ci sono quasi dodicimila aziende che gestiscono la costa, e questi concessionari si sono negli anni consolidati all’interno dei partiti con i loro gruppi di forza. Nel 2018, con la legge 145, si era approvata una proroga ulteriore al 2033 della gestione delle concessioni demaniali, poi dichiarata illegittima, e questo ha provocato l’avvio di una nuova procedura di infrazione da parte della Commissione Europea, con una lettera di messa in mora.
È importante fare un passaggio sulle sentenze. La prima, quella della Corte di giustizia europea (14 luglio 2016) – sentenza Promoimpresa – sancisce l’illegittimità della proroga generalizzata delle concessioni, perché le spiagge vengono considerate un bene limitato, e quindi è obbligatorio per lo Stato dover mettere a gara le concessioni e dare a tutti la possibilità di accedere a questa possibilità. Questa sentenza ha aperto la strada a una serie di pronunce giurisprudenziali: sono tantissime le sentenze di merito che si sono espresse sull’illegittimità dei titoli concessori, sempre a favore della concorrenza e dell’illegittimità delle proroghe, fino ad arrivare alle ultime e importantissime sentenze del Consiglio di Stato che in Adunanza Plenaria, con le due sentenze gemelle n.17 e n.18 del 9 novembre 2021, ha dichiarato le norme nazionali in contrasto con il diritto europeo, indicando che devono essere disapplicate tanto dai giudici quanto dalla pubblica amministrazione. Uno Stato non può approvare norme in contrasto con le direttive europee, come invece stava avvenendo con la scelta di prorogare le concessioni balneari di volta in volta.
RR: A questo proposito, tanti privati attualmente concessionari agitano lo spauracchio della possibile “invasione” da parte delle multinazionali che, in questo modo, sarebbero agevolate nell’ottenimento delle concessioni…
Si tratta di una preoccupazione legittima, ma che non è calata per niente sulla realtà delle spiagge. Tutto dipenderà da come saranno costruiti i bandi. La legge sulla concorrenza appena approvata, per esempio, che non risolve le criticità (anzi contiene numerose disposizioni di dubbia legittimità sugli indennizzi), dal mio punto di vista ha anche alcuni aspetti condivisibili, come la mappatura della situazione delle coste e l’indicazione di affidare le aree in piccoli lotti. Se tu costruisci il bando in un certo modo, per esempio limitando la possibilità per un unico soggetto di avere più di una concessione, il rischio speculazione diminuisce, perché una gestione del genere non sarà mai appetibile per una multinazionale. Se si stabilisce che un soggetto economico non possa gestire più di un lotto, le famose imprese familiari possano trovare spazio. Il vero problema resta piuttosto la reale volontà di attuare le norme esistenti. Ciò che preoccupa gli imprenditori non è lo spauracchio della multinazionale, quanto la possibilità di perdere un patrimonio che loro sentono acquisito come privato, da tramandare. E questo non doveva e non può avvenire perché la legge non lo consente. Essendo un bene demaniale, la concessione deve essere temporanea.
RR: Esiste una direttiva europea, ci sono le sentenze del Consiglio di Stato, ci sono le leggi che vanno in quella direzione… perché si fatica a vedere un cambiamento, anzi la situazione sembra peggiorare?
CV: Il motivo è semplice: gli interessi economici sono troppo forti. In Italia non esiste una legge che disciplini gli affari lobbistici in parlamento, quindi le forze economiche riescono in modo subdolo a interferire sulle decisioni politiche. E il settore di cui stiamo parlando muove un’economia enorme. Diciamo che io gestisco una attività economica, uno stabilimento di gran lusso, facendo pagare centinaia di euro per entrare, offro servizi di lusso, e così via. Chi potrebbe mai venirmi a contestare la mia attività economica se io lo facessi in un’area privata? Invece allo stato ci sono imprenditori che ottengono profitti elevatissimi dallo sfruttamento di beni comuni ad alto valore ambientale, senza rispettare neppure i minimi diritti dei cittadini impedendo l’accesso al mare. Col tempo si sono inserite anche delle problematiche di tipo eco-sistemico di tutela ambientale, come la cementificazione a discapito dei paesaggi dunali e l’erosione costiera, che fino agli anni Cinquanta o Sessanta non sono state considerate. Le istituzioni sono state assenti delegando tutto ai privati senza tutelare il bene comune.
RR: L’Unione Europea non prevede delle sanzioni in caso di mancato adeguamento alle direttive?
CV: Certo, ma l’applicazione è molto lenta anche perché come dicevo l’Italia è riuscita in passato a fermare quelle procedure di infrazione. Oggi la minaccia si è ripresentata con la proroga al 2033, e il parlamento ha cercato di sistemare la situazione con una nuova norma che non solo non innova niente, ma continua a rinviare il problema demandando a futuri decreti le misure principali.
RR: Ci sono altri paesi in Europa che vivono situazioni simile all’Italia?
CV: No, l’Italia è un’anomalia assoluta. Gli altri paesi che come noi gestiscono un territorio molto esteso di coste demaniali come la Francia, la Spagna, la Grecia, non hanno assolutamente questo tipo di problemi, il che si traduce in una fruibilità reale da parte di tutti della costa, del mare e della spiaggia.
RR: Come mai Napoli e la Campania rappresentano il caso più critico nell’ambito di questa anomalia italiana?
CV: Un po’ per la conformazione della costa, che è in una parte importante frastagliata, rocciosa, e inoltre ci sono gli accessi da ville private storiche, che hanno favorito questa situazione. Poi c’è anche da parte del cittadino una scarsa consapevolezza di quelli che sono i propri diritti rispetto alla fruizione della linea di costa, almeno per il passato, oggi questo fortunatamente sta cambiando. E naturalmente c’è, più che in altri luoghi, l’assenza totale delle istituzioni, anche perché – e questo è un altro vulnus della normativa – quando sono state delegate le funzioni di gestione delle spiagge ai Comuni non è stato previsto uno stanziamento economico per questa gestione. Quindi il Comune, che ha visto sempre ridursi negli anni le sue finanze, ha finito per appoggiarsi in toto sul privato. Da qui nasce l’idea che il privato debba occuparsi della pulizia delle spiagge libere adiacenti: i Comuni hanno totalmente abdicato ai privati perché si sono visti alle strette. Probabilmente, se lo Stato avesse elargito risorse per rendere le spiagge fruibili, accessibili a tutti, forse la situazione sarebbe stata diversa.
RR: Quest’estate si è molto discusso degli abusi dei concessionari, che sono arrivati addirittura a mettere del filo spinato per non far accedere i cittadini alle spiagge libere attraversando gli spazi di cui detenevano le concessioni, ma anche della gestione di un luogo assai importante per la città, come l’oasi della Gaiola. Qual è la tua posizione a riguardo?
CV: La Gaiola è un’oasi. La gestione che avevano fino a qualche tempo fa con l’ingresso a un euro all’area l’ho trovata molto sensata. Facevi la fila, pagavi una somma simbolica e accedevi in quest’area meravigliosa da proteggere. Poi a un certo punto, con lo spauracchio del Covid, è stato fatto il “numero chiuso” anche alla spiaggetta limitrofa. In questo modo limiti la possibilità di accedere a uno dei pochi punti liberi rimasti nella città di Napoli. L’area protetta deve avere delle misure di tutela, potrebbe essere legittimo. Ma il numero chiuso sulle spiagge è follia, sono totalmente contraria. Tra l’altro considera quante poche spiagge ci sono in città, la gente fa i bagni in specchi d’acqua non balneabile e il Comune che fa? Non riuscendo a gestire la situazione ti va a valorizzare con servizi igienici e docce quelle spiagge dove per pericolo ambientale le persone non possono fare il bagno – per esempio è successo a San Giovanni a Teduccio – piuttosto che porsi il problema dell’inaccessibilità ai cittadini nelle aree in concessione.
RR: Parli di latitanza delle istituzioni anche dal punto di vista dei controlli. A chi spetterebbero?
CV: La gestione amministrativa della concessione, e quindi anche il rispetto della normativa, compete al Comune e ai vigili urbani. Alla Capitaneria di porto invece compete la vigilanza sugli aspetti ambientali. Il controllo su cancelli, muri, eccetera, sarebbe quindi di competenza della Capitaneria, che è stata molto sollecitata negli ultimi anni ma non ha quasi mai fatto interventi risolutivi. Nell’ultimissimo periodo, quando la questione ha assunto una rilevanza nazionale, e dopo denunce continue, in alcune zone, per esempio dell’area flegrea, abbiamo visto controlli e qualche intervento. Ho i miei dubbi, però, che quei cancelli non verranno serrati adesso che è finita l’estate.
RR: Al di là della battaglia per la messa a bando delle concessioni e per una riforma organica, su cosa stanno lavorando le associazioni impegnate sulla questione?
CV: Noi abbiamo chiesto che sia fissata una percentuale minima di spiagge libere che sia davvero adeguata, e che una quota dei canoni concessori sia devoluta ai Comuni vincolandone l’utilizzo alla gestione delle spiagge libere. Un intervento del genere permetterebbe quell’autonomia di costi vincolati per incidere sulla pulizia e sui servizi, quindi su quelli igienici, le passerelle, le docce, tutto quello che è essenziale. Chi frequenta le spiagge libere sa bene che a volte i concessionari non consentono nemmeno a pagamento l’utilizzo dei servizi igienici ai fruitori della spiaggia libera, hanno inteso la concessione come una proprietà privata. D’altronde nel parlare comune si parla di “spiagge private” e “spiagge pubbliche”. Questa concezione va scardinata: le spiagge sono solo pubbliche, quello che viene dato in concessione ai privati sono i servizi, che peraltro riguardano solo le parti della spiaggia retrostanti i cinque metri dalla battigia. É bene ricordarlo a tutti: le spiagge private non esistono! (riccardo rosa)
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