“I signori e i nobili sconvolgevano l’ordine sociale rompendo antiche leggi e consuetudini, talvolta per mezzo della violenza, spesso con pressioni e intimidazioni. Essi letteralmente derubavano i poveri della loro parte di terreno demaniale, abbattendo le case che, per la forza fino ad allora inviolabile della consuetudine, essi avevano considerato loro e dei loro eredi”. Come durante la “grande trasformazione” descritta da Karl Polanyi, oggi assistiamo all’appropriazione sistematica da parte di pochi investitori di tutto ciò che pensavamo fosse nostro.
Lo spossessamento generalizzato con la truffa e la violenza per l’arricchimento di pochi non appartiene solo ai primordi del capitalismo ma ne è il funzionamento abituale; può prendere la forma del colonialismo e del neocolonialismo, della guerra per l’accaparramento delle risorse e delle terre, ma anche la forma dell’assalto al welfare, alla sanità pubblica, ai diritti del lavoro, alle case popolari. Ogni cosa che si riteneva acquisita svanisce: si inventano nuovi nomi, nuovi imbrogli, che trasformano ogni cosa in un nuovo strumento di profitto.
Nelle città il gesto che sintetizza più di ogni altro questa guerra ai poveri è sicuramente lo sfratto. In un’assemblea dello scorso aprile a Roma, una donna sotto sgombero in quei giorni ha detto: «Io non capisco la differenza tra sfratti e sgomberi: stanno comunque provando a cacciarci via di casa». Non ha senso distinguere l’assalto ai palazzi occupati come quello di via del Caravaggio a Roma, sotto sgombero dal prossimo 11 giugno, dalle minacce di espulsione dalle case popolari o dai tentativi di sfratto degli inquilini che non possono più pagare l’affitto. Migliaia di persone rischiano di perdere il tetto sulla testa, proprio quando, per rispettare distanziamento e quarantena, i centri per senzatetto hanno ridotto a quasi un terzo la loro capacità di accoglienza, ovviamente con l’assegnazione di case popolari bloccata quasi ovunque.
Non ci sono molti modi di opporci a questa nuova grande trasformazione se non cercando di fermare sfratti e sgomberi, fisicamente, in ogni quartiere. Confedilizia e le lobby di proprietari diffondono la retorica degli “inquilini furbetti” per instillare veleno nella discussione; usano lo stesso strumento che si usa per legittimare i licenziamenti, e cioè che anche i padroni piangono, e che gli sgomberi sono giusti e necessari. Invece uno sgombero è sempre un’ingiustizia: perché la casa, come il lavoro, è un diritto.
Giovedì 27 maggio per la terza volta ci siamo radunati di fronte al portone di una donna che vive a Tor Pignattara con figli a carico. Il proprietario le ha affittato un appartamento in nero, rifiutando sempre di farle il contratto. L’appartamento è in realtà un ufficio, senza abitabilità, per di più inserito in un complesso di edilizia pubblica dove vendite e affitti sono strettamente regolati. Senza contratto non si può chiedere la residenza, e quindi né la casa popolare né i diritti costituzionali di base, come l’assistenza sanitaria. Quando la donna ha perso il lavoro, il padrone di casa le ha alzato ancora l’affitto e lei ha smesso di pagare. Allora lui ha iniziato a tormentarla: le ha tolto gas e luce (senza contratto non si possono fare volture!), entrava in casa con la sua copia delle chiavi, un giorno ha portato addirittura un gruppo di uomini a smontare le porte e le finestre per costringerla ad andare via. Lei ha continuato a resistere e lo ha denunciato ai carabinieri, che lo hanno costretto a rimontare gli infissi.
Alla fine il padrone di casa l’ha denunciata per “occupazione abusiva”. Non si capisce come sia riuscito a ottenere una sentenza così delirante, che inverte le responsabilità al punto di dichiarare che l’assenza del contratto di locazione non consentirebbe la detenzione dell’immobile da parte della donna, che pertanto “deve restituire l’appartamento”. A leggerla, sembra che il sistema giudiziario stia già aprendo la strada a far valere la libertà assoluta dei proprietari sulle case che possiedono, includendo affitti illegali, contratti in nero, compravendite truffaldine, evasione fiscale. “È casa mia e ci faccio quello che mi pare”, equivale a dire che se sono proprietario di un’auto ho il diritto di investire i pedoni, e che le loro rimostranze sarebbero un attacco alla proprietà privata della mia auto. Le associazioni di proprietari invocano la fine del blocco degli sfratti con lo slogan “non sulla nostra pelle”. Ma per decenni hanno lavorato per fermare la costruzione di case popolari e abolire l’equo canone, che facevano abbassare gli affitti. Ora ne pagano le conseguenze: dove pensate che possano vivere tutte queste persone impoverite, se non nelle migliaia di case vuote di cui è stata approvata la costruzione, anche quando non ce n’era bisogno? O negli appartamenti lasciati vuoti per affittarli ai turisti? O nei palazzi dismessi che le amministrazioni pubbliche provano a cedere ai grandi fondi immobiliari?
Così il 27 marzo, giornata europea per la casa e gli affitti, l’ufficiale giudiziario ha visitato la donna per la prima volta. Il mese successivo, di nuovo cinquanta persone si sono radunate in suo sostegno. Al terzo appuntamento, giovedì 27 maggio, la scena era diventata familiare: una bandiera rossa “Stop sfratti sgomberi e pignoramenti” e un poster “La casa è di chi la abita” appesi sulla grata della finestra; un tavolino di plastica ai piedi della scalinata d’ingresso con i cornetti, i biscotti, il caffè nei bicchierini di carta e i volantini; tutto intorno, abitanti delle occupazioni dei movimenti per l’abitare, militanti del sindacato inquilini e abitanti, attivisti dei comitati di quartiere circostanti, da Certosa a Quarticciolo, da Pigneto a Centocelle.
L’ufficiale giudiziario si è presentato con quindici poliziotti in borghese, il fabbro, due avvocati della proprietà e la dirigente del vicino commissariato di polizia. In questi tre mesi abbiamo iniziato a capire qualcosa della personalità di questo funzionario, che prende decisioni devastanti per le vite delle persone – per esempio, concedere solo un mese di tempo tra un accesso e l’altro – coprendole con uno strato appiccicoso di sarcasmo vittimista, con frasi cliché come «io non ho un cuore», o «sono come il becchino, nessuno è contento di vedermi». Di fronte al rifiuto di muoversi delle persone concentrate lì davanti, l’ultimo giorno si è fatto sfuggire una verità: «Io obbedisco all’avvocato del proprietario, se mi dice di sgomberare io devo sgomberare». L’intero sistema di giustizia è solo un ostacolo al rapporto diretto tra proprietà immobiliare e forza pubblica. La stessa dirigente della polizia, a chi le spiegava che lì si era commesso un reato di cui la donna era la vittima, rispondeva «sono questioni burocratiche, ora non ci riguardano». Fortunatamente, siamo riusciti a convincere l’avvocato – non l’ufficiale giudiziario – ad aspettare un altro mese. La nuova data di sgombero sarà il 30 giugno: ma poi basta, ci ha fatto capire minaccioso l’ufficiale giudiziario.
Non sapremo mai se questa nuova sospensione risponde solo alla volontà di risparmiare sullo sgombero (può essere molto costoso portare via a forza decine di persone) o anche a un barlume di consapevolezza dell’ingiustizia di cui noi continuavamo a spiegargli i pezzi. Per preparare il ricorso all’Onu contro lo sgombero, abbiamo dovuto studiare a fondo tutti i documenti che riguardano la vicenda. Per esempio, la questione del “Piano di zona”. La casa da cui stanno cercando di sfrattarla è parte di un patrimonio pubblico di valore inestimabile, duecentomila appartamenti che il comune di Roma ha finanziato fin dagli anni Settanta, in teoria per alloggiare chi non ha accesso all’edilizia privata, in pratica creando nuove occasioni di profitto per cooperative fasulle e costruttori corrotti. Migliaia di questi appartamenti sono stati venduti a prezzi di mercato, molti altri affittati in nero, spesso a migranti, senza nessun controllo da parte del Comune. Innumerevoli leggi e sentenze ne ribadiscono la funzione pubblica, ma le istituzioni fanno finta di niente. I proprietari sanno di avere l’impunità, ma in teoria ognuno di questi appartamenti che sia stato venduto o affittato senza rispettare i requisiti pubblici, dovrebbe essere espropriato. Il 25 giugno è previsto un altro sgombero di un abitante del Piano di zona “Monte Stallonara”, dalla parte opposta di Roma, anche lui ingannato. Se ci fosse giustizia, il Comune dovrebbe riprendersi le case, far condannare i proprietari per l’evasione fiscale e il mancato rispetto della convenzione, magari lasciarci dentro le persone che ci abitano, di fatto vittime di truffa. Se applicassero il canone previsto, non si dovrebbe pagare più di duecento euro al mese; e lo stesso dovrebbe avvenire per migliaia di altri appartamenti nei piani di zona in tutta Roma, che a quel punto svolgerebbero la funzione per cui sono stati costruiti, cioè garantire case a chi non può accedere al mercato privato, calmierare i prezzi, indirettamente far calare anche gli affitti privati. Non sorprende che Confedilizia e le associazioni dei proprietari, che sostengono di non voler pagare il blocco degli sfratti, abbiano sempre taciuto su questa grande appropriazione. Meglio dare sempre la colpa alle vittime che riconoscere una complicità nell’ingiustizia.
Sospeso lo sfratto, mentre celebravamo timidamente questa vittoria temporanea del diritto alla casa sul diritto al profitto, con gli organetti di un coro di musica popolare che ci ha raggiunto nel parcheggio della palazzina, e mentre due rappresentanti dei servizi sociali del municipio ripetevano alla donna di non poterle offrire altro aiuto che separare la famiglia in due centri d’accoglienza diversi, all’improvviso è arrivata la notizia: la Commissione dell’Onu aveva accolto il ricorso per fermare lo sfratto. L’Alto Commissario per i Diritti Umani ci ha mandato per mail una lettera, con cui annuncia di aver già contattato il governo italiano: le istituzioni hanno otto mesi di tempo per trovare una soluzione vera per la donna, nel rispetto delle convenzioni Onu sui trasferimenti forzati. Nel frattempo lo sfratto non si può eseguire.
Sappiamo che nello stato spagnolo da diversi anni si riesce a bloccare alcuni sfratti grazie all’intercessione di questa commissione, ma in Italia un ricorso del genere non era ancora mai stato accolto. La lettera suscita diffidenza istintiva: basta vedere quel che accade a Gaza per capire quanto peso abbiano le rimostranze di queste istituzioni internazionali e siamo tutti sicuri che lo stato italiano farà il possibile per ignorare questa richiesta e procedere ugualmente. Eppure è scritto qui, nero su bianco, che non si può procedere con questo sgombero, perché lo impone la più alta istituzione per la tutela dei diritti umani. Se questo provvedimento fosse rispettato, si potrebbe provare a estenderlo almeno ad alcuni dei prossimi casi di sgomberi senza alternative abitative, che siano occupazioni, case popolari non assegnate, o affitti non pagati.
Al Commissario Onu non sembra interessare granché la questione dei Piani di zona, che a noi invece fa bollire il sangue. Quello che sottolinea è che la donna non può finire in strada, che ha diritto a una casa dignitosa e che di fronte a questa violazione dei diritti fondamentali la proprietà può aspettare. Forse questo è il messaggio più importante. Ancora non sappiamo se il prossimo 30 giugno l’ufficiale giudiziario avrà modo di dare ancora prova del suo piccolo sarcasmo, di fronte a una folla speriamo ancora più grande di vicine e vicini solidali, oppure se verrà fermato da un sarcasmo più grande di lui. Sembra una presa in giro, infatti, sia dirlo che doverlo dire: eppure gli sgomberi, gli sfratti, le espulsioni forzate, sono tutte violazioni dei diritti umani, indipendentemente dalla proprietà della casa, o da quanto siano stati “furbetti” o diligenti gli inquilini. Come si legge sulla pagina della Commissione Onu, “gli sgomberi rappresentano gravi violazioni di una serie di diritti umani internazionalmente riconosciuti, tra cui quelli all’alloggio, al cibo, all’acqua, alla salute, all’educazione, al lavoro, alla sicurezza della persona, alla libertà dai trattamenti inumani e degradanti, e alla libertà di movimento”. Lo terremo presente il giorno del prossimo accesso a Tor Pignattara, ma anche le innumerevoli volte che, a Roma o altrove, ci troveremo di fronte a un’espulsione forzata, nella compiacenza delle istituzioni e nel silenzio dei media. Tutti gli sfratti e gli sgomberi devono essere bloccati, finché non si garantisce il diritto universale alla casa. (stefano portelli)
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