Sono al cinema, vedo un archivio di immagini di guerra. Appaiono bobine impilate su scaffali di metallo, pellicole antiche sono manipolate da mani inguantate, pinze sottili raccolgono frammenti di foto. Scorrono poi sullo schermo i video restaurati: uomini in fila sono impiccati, sospesi immobili; soldati in moschetto levato sbarcano su una costa africana; marciano le truppe nel deserto tra arbusti rinsecchiti; un’operazione di polizia delle forze coloniali turba la popolazione. Sono spezzoni di riprese della guerra italiana in Libia, era il 1911. Una sequenza mostra sullo sfondo il mare che sfiora la costa: un’imbarcazione militare si prepara all’attracco, ma in primo piano vedo operatori cinematografici in copricapo coloniale, una macchina da presa su una treppiedi e soldati della marina con i fucili a tracolla. Quest’ultima immagine rivela l’origine delle altre e testimonia della collaborazione tra operatori ed esercito italiano di occupazione. “1911. Libia. La guerra incontra il cinema” è il primo capitolo di Guerra e pace di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti.
Da un filmato di repertorio tornano volti di uomini e donne che subiscono l’occupazione: l’immagine evoca un accadimento lontano. Eppure, ogni evento impresso in pellicola, e proiettato, scaturisce da una serie di manipolazioni che attraversano il tempo: dalle scelte di operatori complici con l’esercito occupante al lavorio dei tecnici di laboratorio in un archivio del nostro mondo. Che ogni immagine non sia pura, né immediata, non mi sembra un pensiero banale in questa primavera. Per giorni ho guardato ammutolito ombre di una guerra a Gaza. Le fotografie e i video raccontavano di macerie, distruzione e sofferenza: fluivano senza filtri nella comunicazione virtuale, prove gridate per sublimare un senso d’impotenza. Avevo quasi dimenticato che ogni reperto visuale ha una storia. Chi ha catturato l’immagine, e in quali condizioni, com’è stata diffusa, e perché, da quale agenzia, e com’è giunta fino a me, tramandata? Guerra e pace è una genealogia di materiche immagini di guerra.
Nel secondo capitolo del film osservo gli uffici dell’Unità di crisi della Farnesina. Sugli schermi appesi alle pareti scorrono notizie dell’ultima ora, una mappa del mondo porta i segni d’un pennarello che annuncia conflitti, pericoli e attentati. Funzionari aggiornano mappe virtuali della Libia con gli ultimi bombardamenti durante il conflitto tra le truppe di Haftar e le forze tripolitane. Al tempo del digitale si moltiplicano le ombre: una bomba esplode in una strada, molotov scagliate contro un carro armato, primi ministri incravattati stringono mani, una ripresa in soggettiva mostra un attacco a una sinagoga in Germania. I video si riflettono sui vetri degli uffici, ma fuori dalle finestre, sotto un cielo di nuvole, vedo i palazzi del governo, la città in pace. Ogni immagine, nel momento della sua diffusione, appare in luoghi peculiari (stanze ministeriali, camere imbandierate, uffici): sono visioni che transitano in spazi affetti da relazioni di potere. Sui vetri della Farnesina ho compreso come ciascuna proiezione ha un fuori che la circonda, ovvero un luogo del tempo, spazio di manipolazione.
Ora sono in una scuola militare – Agence d’images de la défense – dove gli allievi imparano a riprendere la guerra. Una targa riporta: École des métiers de l’image. È il terzo capitolo del film: “Il mestiere delle immagini”. Giovani soldati scrutano dipinti di guerra, analizzano foto dei conflitti del Novecento, apprendono i fondamenti della propaganda, s’aggirano in archivi che testimoniano di vecchi massacri. Intanto, fuori dalla finestra, ragazzi della Legione straniera eseguono flessioni e smontano fucili automatici. In classe un ufficiale mostra riprese di fosse comuni, si rivolge agli studenti: «Immaginate la sensazione dell’operatore in quel momento. Potrebbero essere suoi amici, o nemici. Forse ci sono dei bambini. Come affrontiamo una situazione del genere? Come può reagire l’operatore? Sono domande che bisogna porsi. Si può filmare? Si deve filmare? Si può mostrare? Lo si può conservare in un archivio? Vi risponderò secondo il mio modo di pensare. Io sono un militare. Quindi posso filmare? Sì. Tecnicamente prendo la telecamera, la punto, la giro. Posso filmare? Come reagirò di fronte alla morte? O di fronte a un ferito, di fronte a dei corpi mutilati… Devo mostrare quel che ho filmato? Secondo me, no. Non sta a me decidere. La decisione spetta al mio superiore». Gli allievi riprendono scene d’una esercitazione militare e Guerra e pace diviene d’improvviso un film di guerra. La ricerca di D’Anolfi e Parenti sfiora anche quell’originario punto d’indistinzione tra documentario e finzione.
Mentre scorre il film, comprendo che negli uffici della Farnesina e nella classe degli allievi militari ho osservato una genealogia a ritroso delle immagini coloniali in Libia. Ora restano soltanto frantumate tracce di soldati italiani occupanti e di popolazioni oppresse, ma posso comprendere i meccanismi di produzione e riproduzione di quelle inquadrature grazie a due esplorazioni: come le immagini di guerra sono mediate e diffuse dai centri di potere (il secondo capitolo); come s’insegna la cattura delle immagini negli apparati militari (il terzo capitolo). Guerra e pace s’osserva con lo sguardo rivolto al passato, ma la percezione è costantemente spinta verso il presente: una risalita nel grembo da cui scaturiscono le visioni belliche.
L’ultima parte del film racconta del futuro che ci attende. Nel deserto lasciato da un’umanità scomparsa – forse a causa di un disastro nucleare, forse per gli effetti di un’epidemia – resteranno archivi asettici carichi di foto di conflitti, riprese di scontri a fuoco, testimonianze dai campi di concentramento, memorie orali di soldati e resistenti. Immagino che gli alieni troveranno tra le rovine non poesie e opere sinfoniche, ma documenti della distruzione. Dov’è, mi chiedo, la pace in Guerra e pace? Forse la pace abita i luoghi dove si gestiscono le immagini di guerre lontane.
I film precedenti dei due autori compongono una ricerca disincantata della vita che insorge nonostante la morte di un mondo amministrato. I gesti corporei irrompono tra le formalità dei rituali matrimoniali (I promessi sposi); esseri viventi trovano varchi tra le maglie del controllo aeroportuale (Il castello); gli organismi sussistono in continui cicli vitali (L’infinita fabbrica del duomo e Spira mirabilis). In Guerra e pace noto invece la stessa disperazione di Materia oscura. Da questa disperazione discende uno sguardo freddo e spietato, capace di osservare la guerra come un materico fenomeno di riproduzione simbolica, e senza cedere alla passione, all’affezione del dolore. Forse è lo stesso sguardo freddo del potere, ma rovesciato e riflesso come in una camera oscura.
Nel quartiere dove abito le istituzioni democratiche e i corpi di polizia hanno stretto un patto di collaborazione per disseminare le strade di telecamere. Ambiscono a realizzare una video-sorveglianza dotata di intelligenza artificiale. Al momento i sensori di Argo – entità mitologica dai cento occhi che dà il nome al progetto di sorveglianza urbana – sono ciechi e spenti. Eppure, se mai funzioneranno, attiveranno uno sguardo molteplice e integrato sugli eventi della città. Il cinema di D’Anolfi e Parenti mi suggerisce un’opera immaginaria sul progetto Argo: un film capace di osservare l’origine degli accordi tra istituzioni, scrutare gli uffici dove vengono recepite ed elaborate le immagini, cogliere i dialoghi tra i tecnici e i membri dei corpi di polizia, seguire le scelte prese in seguito all’interpretazione e manipolazione dei video. Lo sguardo di questo film soltanto sognato avrebbe la stessa freddezza asettica, e scevra di moralità, di una telecamera che sorveglia la via. Una visione così disperata da imitare la freddezza del potere, tuttavia così lucida da mostrarne la genealogia e i meccanismi di funzionamento. Questo, mi sembra, è il residuo di possibilità aperto da Guerra e pace. (francesco migliaccio)