È in libreria dallo scorso mese di aprile il numero 6 de Lo stato delle città (qui indice e distribuzione nelle principali città italiane). Proponiamo a seguire l’articolo di Lucia Tozzi: Miti e retoriche dell’innovazione culturale a Milano.
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Nel 2015, poco prima dell’apertura-flop dell’Expo, circolarono a Milano delle bellissime cartoline del Duomo lambito da onde marine, della torre Unicredit in stile Copacabana e altri capricci balneari. Era la campagna di lancio di Mare culturale urbano, un ambizioso progetto di centro culturale ad alto tasso sperimentale, concepito sul modello dello spagnolo Matadero, del marsigliese La Friche o del Vooruit di Gent in Belgio. I fondatori avevano vinto un bando pubblico per l’assegnazione di un edificio in disuso nella zona ovest della città, un quartiere misto nella composizione ma con un tessuto urbano molto rarefatto, poco sociale. «Mare vuole prima di tutto cambiare le modalità della fruizione culturale a Milano e in Italia – dichiarava Andrea Capaldi –. Qui non esiste ancora un luogo che offre cultura 24 ore su 24 in modo libero, senza barriere all’entrata, in grado di diventare punto di riferimento per la comunità. E in più questo progetto unisce la residenza per artisti performativi, digitali, per musicisti, ricercatori, e un lavoro molto radicale sul territorio».
L’edificio, progettato da Carlo Gandolfi, avrebbe dovuto ospitare due sale cinema, due teatri, sale prove, ristorante, spazio mostre, laboratori, sale riunioni dove accogliere e far incontrare la gente del quartiere con artisti e ricercatori internazionali. Una visione grandiosa, poggiata su un nuovo modello di impresa sociale-culturale: «Mare – continuava Capaldi – è prima di tutto un nuovo modello di impresa, che prova a sostenersi con le proprie gambe mescolando attività artistica e attività commerciale (bar e ristorante). Non è una banalità nel campo delle arti performative, perché l’alternativa è tra il confinamento in una nicchia microscopica e il finanziamento pubblico che seleziona con criteri simili a quelli di quaranta anni fa, impermeabile alle nuove ricerche. Noi proviamo a mostrare che può esistere un’impresa culturale che si sostiene senza ricorrere esclusivamente all’entertainment. Se poi in futuro arrivano anche soldi pubblici sono naturalmente benvenuti».
I soldi pubblici sono poi arrivati negli anni – come specifica il sito, dal ministero dei beni culturali, dalla Siae, dal comune di Milano e dalla fondazione Cariplo. E però l’edificio non è mai stato realizzato, le attività di Mare culturale urbano hanno trovato più modestamente ospitalità nella vicina Cascina Torrette di Trenno, adiacente a un piccolo complesso di social housing (Cenni di Cambiamento), e soprattutto i contenuti culturali non sono mai decollati. Dopo un breve periodo iniziale più esplorativo, con azioni artistiche che coinvolgevano il quartiere, la programmazione si è afflosciata. Il flusso degli eventi è diventato sempre più simile a una sequenza di presentazioni autoreferenziali condita da piccole star del sistema culinario o musicale, funzionali più che altro a far girare il ristorante-bar. Sei anni dopo, Mare culturale urbano si ritrova a gestire i bar (“food hub”) dei Canottieri Olona sul Naviglio Grande e di Cascina Merlata, un nuovo quartiere di speculazione nato sui terreni di fronte al sito ex-Expo.
IL MITO DELLA SOSTENIBILITÀ
Nel 2016, nei dodicimila metri quadrati dell’ex-Ansaldo a via Tortona, apre invece BASE, definito in questi termini: “Un progetto di contaminazione culturale tra arti, imprese, tecnologia e innovazione sociale. La nostra missione: generare nuove riflessioni per la città del XXI secolo, creare nuove connessioni tra arti, discipline e linguaggi, sostenere il ruolo di Milano tra le grandi capitali della produzione creativa”. BASE è un esempio classico di rigenerazione urbana “à la milanaise”: uno spazio industriale bellissimo acquisito dal Comune nel 1989, destinato durante la giunta Pisapia a diventare un centro per la “creatività giovanile” (con l’imbarazzante nome OCA, Officine Creative Ansaldo, fu anche proposto al pubblico come “anti-Macao” nell’anno dell’occupazione della Torre Galfa a opera dei lavoratori dell’arte che fondarono il noto centro sociale milanese), fu affidato nel 2014 in gestione per dodici anni a un gruppo assai eterogeneo formato da Arci, Esterni (“impresa culturale di placemaking”), H+ (agenzia pubblicitaria), Avanzi (società di consulenza), Make a Cube3 (incubatore di imprese). Quello che ne risulta è un monumentale aggregato di coworking, ostello/residenza, bar/ristorante, spazio per conferenze utilizzato talvolta per proiezioni e mostre, una sorta di falegnameria/laboratorio chiusa in poco tempo, ma soprattutto una location flessibilissima per affitti temporanei. Perché il quartiere Tortona, pieno di vecchi stabilimenti e magazzini, è il regno del Fuorisalone del mobile, poi colonizzato dalla moda per le Fashion week e in seguito regno assoluto dell’affitto temporaneo per le incessanti week milanesi promosse dalla giunta Sala (love, music, green, book, digital, art, pet, food e così via, sempre in inglese per attirare un pubblico più internazionale).
Tutto bene (quasi), uno direbbe, se non fosse che questo circo ha un grandissimo problema: deve passare per cultura, anzi per Innovazione Culturale. I giornali sono costantemente sollecitati a dare notizia dei dj-set, degli incontri di pubblicitari, delle “mostre” in stile cartelloni da scuola elementare, degli eventi promozionali di marchi commerciali come se si trattasse di fermento culturale, di conferenze di alto spessore, di performance artistiche straordinarie, di produzione e ricerca. E perché mai? Perché per essere sostenibile – economicamente sostenibile – BASE deve attrarre, deve essere riconosciuto come uno spazio non solo bellissimo, ma con il valore aggiunto della cultura – innovativa e sociale, per di più.
Ma ancora, se il danno fosse solo questo, potremmo ancora riposare sereni: di fuffa spacciata per arte o cultura è pieno il mondo, e anche la storia se è per questo. E invece è anche peggio di così. In primo luogo perché questo sistema risucchia con sempre più vigore i finanziamenti pubblici e privati destinati alla cultura, quella vera. Funziona così: prima si cerca di dimostrare che non è vero che la cultura non si mangia, che la cultura non è solo un costo, ma che se la si gestisce con modelli imprenditoriali di un certo livello, se si apre alla partnership con i privati, se si coinvolgono “esperti” bocconiani, manager e fundraiser (dal mondo dei venditori e della pubblicità), allora la cultura potrà diventare magicamente sostenibile, anzi, che dico, redditizia, un petrolio, il petrolio d’Italia!
Dopo avere raccolto finanziamenti e sponsorizzazioni intorno a progetti insulsi, li si convoglia soprattutto sulla comunicazione, inondando le terze pagine e i social di anticipazioni trionfali – le recensioni in Italia sono considerate un genere antiquato, quindi nessuna verifica post-evento smentirà le alte lodi ottenute da pr e uffici stampa. A quel punto si deduce, dati alterati alla mano, che “tutta” la cultura può essere sostenibile, anzi, deve esserlo. Quindi si tagliano fondi pubblici assegnati alle istituzioni classiche, ai luoghi dove si fa ancora ricerca, ai musei che conservano opere importanti, o che promuovono una cultura a volte divulgativa ma ancora di qualità, si decimano le assunzioni pubbliche di personale stabile e qualificato, e si potenziano anche in quelle istituzioni gestioni di privati e cooperative che sfruttano personale precario e promuovono il volontariato. Marketing, comunicazione e fundraising diventano settori invadenti, si insinuano nella pianificazione culturale fino ad assumere un ruolo predominante: le persone che se ne occupano entrano nei consigli di amministrazione, decidono contenuti, assegnano direttamente i fondi, curano cicli di conferenze e mostre.
Si dissolve l’idea che la sfera pubblica possa e debba promuovere la cultura in quanto tale: questo diventa un compito delegato al mecenatismo privato, mentre l’obiettivo di stato e istituzioni locali si sposta sempre di più verso la subordinazione della cultura all’attrattività, al consenso, all’intrattenimento. Le mostre devono fare numeri altissimi, gli eventi devono essere zeppi di persone, garantire indotto e molta, molta fama alle istituzioni, alla città. La cultura deve essere il motore del turismo, della rigenerazione urbana e della cosiddetta coesione sociale. Il risultato materiale è che studiosi, ricercatori, persone dotate di cultura umanistica vengono estromessi dalla gestione delle istituzioni culturali e relegati a lavori precari, servili, sottopagati o sono costretti nell’angusta figura di “manager di sé stesso”, una posizione che costringe i più alla mediazione commerciale e spesso contemporaneamente alla fame. Dall’altra parte, la cultura gestita da manager, pubblicitari, filantro-capitalisti, organizzatori di serate e comunicatori, diventa un fenomeno puramente commerciale e di propaganda, che a forza di invocare la mescolanza di alto e basso e deprecare la visione elitaria, soffoca la critica e banalizza all’estremo i contenuti, pregiudicando la possibilità di produrre pensiero, opere ed eventi di un qualche interesse o di una qualche bellezza. La cultura “sostenibile e innovativa” è diventata l’arma più affilata contro l’esistenza della cultura come produzione di senso.
Può sembrare una lettura troppo pessimista, ma non è difficile riconoscere nelle sue linee l’evoluzione dell’offerta culturale milanese degli ultimi anni. La programmazione dei principali musei pubblici è sempre più penalizzata dal de-finanziamento e dalla mediazione con partner privati: Triennale, Padiglione d’Arte Contemporanea, Palazzo Reale, Museo del Novecento riescono a stento a infilare qualche mostra buona in mezzo a eventi degli sponsor, affitto spazi per matrimoni ed eventi corporate, mostre blockbuster, sfilate, dj-set, cooking session. La Fabbrica del Vapore, che per anni aveva rappresentato un luogo di ricerca e sperimentazione di arte e video, è abbandonata a un destino incerto da anni, e ospita mostre multimediali da baraccone. Lo spazio Oberdan disegnato da Gae Aulenti è passato dalla Provincia alla fondazione Cariplo, che l’ha trasformato in Meet, centro per la cultura digitale, con la simbolica ristrutturazione a opera di Carlo Ratti, l’architetto dell’Mit che attira tutte le commesse a tema Smart City – tra cui il distretto Mind sulle aree ex-Expo e il progetto per lo scalo di Porta Romana. Il Mufoco di Cinisello Balsamo, istituito dalla Provincia e luogo di rara sperimentazione nel campo della fotografia, non si sa se riuscirà a sopravvivere e in quale forma e luogo. Il Museo delle Culture è nato sotto il segno di una partnership pubblico-privato con il Sole24ore cultura che ha connotato subito la sua attività con mostre-pacchetto sulle Barbie e sui soliti impressionisti. E una nuova creatura ibrida, la Casa degli artisti, è stata aperta nel 2020 mettendo nuovamente a collaborare enti profit e no profit in un luogo che era stato occupato per anni (Csoa Garibaldi e la Casa degli artisti che faceva capo a Luciano Fabro), sgomberato nel 2007 e riqualificato in qualità di onere di urbanizzazione di un condominio di lusso adiacente.
Insomma, il pubblico disinveste e le energie culturali migliori cercano ossigeno nel privato, dalle potentissime fondazioni dei grandi marchi – Prada, Pirelli – fino ai piccoli e medi spazi indipendenti.
CULTURA COME ANIMAZIONE
È tuttavia complicato, anche per chi vive immerso nella produzione culturale, percepire questo quadro con chiarezza. Anche perché le intense e ridondanti narrazioni sull’innovazione culturale puntano moltissimo – oltre che sulla sostenibilità economica, sull’impresa e sulle nuove tecnologie – sull’innovazione sociale: la nuova cultura deve promuovere nuove pratiche collaborative, coesione sociale, produzione dal basso, relazioni sul territorio. Le decine di bandi pubblici o delle fondazioni bancarie sono costruiti in larga parte su questi presupposti, e chi vuole partecipare deve ingegnarsi a raccontare come la propria arte sia utilissima per rinsaldare i legami delle comunità con il proprio territorio, per costruire identità nei quartieri. Eventi effimeri, feste multiculturali, murales edificanti progettati insieme agli abitanti dovrebbero offrire un senso di riscatto agli abitanti di periferie sempre meno coperti dal welfare.
Ovviamente non lo fanno, ma l’insistenza su questa narrazione è funzionale ad alimentare la macchina del cosiddetto Secondo Welfare e del Social impact investing (finanza a impatto sociale), che – come spiega tra gli altri Davide Caselli nel libro Esperti, come studiarli e perché (Mulino, 2020) – è la deriva più pericolosa del pluridecennale attacco neoliberista al welfare pubblico, la trasformazione dei servizi sociali in asset da cui estrarre profitti. La cultura in questo contesto serve a depistare le richieste degli abitanti dai bisogni primari (la manutenzione delle case, la ricerca di un lavoro stabile, l’assistenza familiare e sanitaria) verso un piano più astratto di “riconoscimento”, offrendo copertura così all’amministrazione locale – che con piccoli finanziamenti riesce a mostrarsi attiva nelle periferie – e ai marchi desiderosi di ripulire o promuovere la propria immagine attraverso operazioni di Corporate Social Responsibility.
Due tra i più attenti studiosi dell’innovazione culturale in Italia e a Milano, Bertam Niessen di cheFare e Paola Dubini, hanno messo in guardia a più riprese sulle sue disfunzioni e sugli eccessi retorici, eppure non ne hanno mai preso le distanze. Di certo perché è il loro campo, ed è un campo in cui è estremamente vantaggioso essere riconosciuti come esperti, perché orienta le politiche europee, italiane e locali. Ma anche perché la stessa parola è una trappola linguistica. Come prendere le distanze da una cosa che si chiama innovazione? Vuoi passare per reazionario, luddista, passatista, elitario?
È in realtà un rischio blando, che si può affrontare senza troppo timore per liberare la cultura da queste scadenti narrazioni. Per demolire il mito dell’innovazione come mescolanza di alto e basso è sufficiente ricordare che la cultura lo ha sempre fatto, senza per questo ridursi alla parodia di sé stessa. I casi fallimentari (dal punto di vista strettamente culturale) di Mare culturale urbano e di BASE mostrano con grande chiarezza i limiti dell’innovazione intesa come terzo-settorializzazione e sostenibilità economica della cultura, ed è importantissimo prenderli sul serio.
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