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recensioni
6 Settembre 2017

Le mafie nell’economia globale. Un saggio di Isaia Sales e Simona Melorio

Antonio Grieco
(archivio disegni napoli monitor)
(archivio disegni napoli monitor)

Una delle tesi fondamentali degli economisti classici è che il mercato basti da solo a regolare i processi  economici e che l’emergere di fenomeni d’illegalità nel mondo delle imprese non intacchi, se non in modo molto marginale, il funzionamento delle relazioni tra i diversi attori sociali.

Questa visione tutta ideologica dell’economia è stata esaltata su scala globale, e in forme talvolta parossistiche, dal neoliberismo degli anni Ottanta del Novecento, quando, con la liberalizzazione dei capitali, prese l’avvio la globalizzazione finanziaria e con essa un nuovo ciclo economico e politico. Artefici del nuovo corso conservatore furono gli stessi dirigenti della sinistra europea che in un primo tempo avevano resistito alle sirene del neoliberismo d’impronta reaganiana. Una delle conseguenze di questa svolta fu l’assoluta sottovalutazione di gran parte degli studiosi (non solo italiani) della presenza mafiosa nei processi di finanziarizzazione dell’economia. Non sorprende più di tanto, per esempio, che un economista attento come Thomas Piketty nel suo poderoso volume Il Capitale nel XXI secolo, non abbia colto l’occasione per analizzare le modalità stesse in cui oggi si formano i grandi capitali.

Il merito maggiore di Isaia Sales è di aver messo, già dagli inizi degli anni Ottanta, al centro dei propri studi il tema delle mafie come fenomeno interconnesso con l’economia e di aver spazzato via tutta una serie di stereotipi che si sono addensati nella storia criminale del nostro paese, sottolineando l’intreccio “storico” delle mafie col potere politico, senza il quale da tempo esse sarebbero state sconfitte, come sono state sconfitte tutte quelle forme di ribellione al sistema, dal brigantaggio al terrorismo, che si opponevano dall’esterno, e in modo frontale, al potere economico e politico.

Ora il volume Le mafie nell’economia globale fra legge dello Stato e leggi di mercato (Guida, 2017), da lui scritto con Simona Melorio – ricercatrice presso il centro ReS incorrupta dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli – costituisce un ulteriore contributo alla comprensione del fenomeno mafioso, che oggi tende sempre più a estendersi oltre i confini storici da cui trae origine, facendosi sempre più sotterraneo, e funzionale agli interessi speculativi del grande capitale, il legame tra economia legale e illegale.

Il primo punto che i due autori toccano è il rapporto tra mafie e mercato, sfatando la leggenda che “il mercato è contrapposto a illegalità, che la criminalità è distruttrice di ricchezza, secondo i canoni classici del capitalismo moderno dettati da Adam Smith e John Stuart Mill”. Si può dire che tutta l’analisi di Sales e Melorio s’incentri su questo aspetto fondante dell’attuale ciclo economico-finanziario, che “ha consentito ai criminali mafiosi di fare soldi con i soldi”. La mafia è dentro l’economia globale e la sua azione predatrice, essi sostengono, non è altra cosa dal Mercato. Genera ricchezza, anche se questa ricchezza – alimentata da corruzione e violenza – non crea sviluppo nei territori da cui essa proviene, pur alimentando in quella stessa area una domanda di beni e servizi. D’altra parte occorre sempre tener conto che la mafia – come dimostra tutta la vicenda del proibizionismo – storicamente intercetta una domanda e, come diceva Giovanni Falcone, “si fa Stato dove lo Stato è tragicamente assente”.

In qualche modo anche la finanziarizzazione dell’attività manifatturiera ha generato in Italia una ricchezza senza sviluppo. Dagli anni Ottanta, a tale abnorme crescita ha infatti corrisposto una devastante desertificazione produttiva e occupazionale, mentre sono sorte inedite forme di criminalità giovanile nelle parti più abbandonate del paese. Per avere un’idea di cosa è accaduto in quegli anni, basti ricordare che dal 1981 al 1988, in coincidenza della massima espansione del capitalismo finanziario, milletrecento imprese chiusero nella sola Campania. In definitiva, come un tempo fu l’intreccio storico delle mafie col potere politico a impedirne la sconfitta, così ora è il legame “interno” delle mafie alla globalizzazione finanziaria a renderle difficilmente espugnabili.

La novità rispetto ai precedenti fenomeni criminali, per Sales e Melorio, è che la necessità dell’imprenditore mafioso di proiettarsi in zone lecite, non significa per nulla “che egli tralasci definitivamente i mercati illegali, perché la competitività su di essi è strettamente legata alla continua accumulazione realizzata”. Ci sono poi aspetti corruttivi – dal riciclaggio all’evasione fiscale, al lavoro sommerso, alla prostituzione – che non rientrerebbero, secondo i canoni classici dell’economia, nella categoria delle mafie, e che tuttavia vengono oggi calcolate all’interno del Pil.  Il paradosso è dunque che “le mafie dal 2014 fanno parte della ricchezza dell’Unione Europea!”. Il che costituisce non solo la cartina di tornasole della reale volontà dell’Europa di opporsi alla loro espansione, ma un segnale di complicità tra chi delinque e chi avrebbe il dovere di combattere l’illegalità in tutte le sue espressioni.

Tocchiamo qui un punto a nostro avviso ineludibile. Non può esserci una sconfitta delle mafie se non c’è un ripensamento critico e autocritico – soprattutto da parte della sinistra – dei processi economici globali e una svolta nell’azione dei governi che faccia della trasparenza, della lotta alla corruzione e della questione morale la priorità di una diversa strategia politica. Un’azione innovatrice di governo che in Italia, per esempio, potrebbe iniziare legalizzando le droghe leggere ed estendendo la normativa antimafia a tutti i corrotti. Sembra quasi inutile dirlo ma all’orizzonte non s’intravede nulla di tutto questo, come non si scorge nessun reale contrasto al dramma sociale e occupazionale che investe intere aree del meridione.

È vero, tutto è radicalmente mutato con la globalizzazione finanziaria del capitale, ma partire dai territori, dalla condivisione della sofferenza e della povertà di larghi strati sociali tramortiti dai colpi allo stato sociale crediamo rappresenti non solo un’impegnativa scelta etica di vicinanza al vissuto delle comunità, ma forse l’antidoto più efficace contro l’idea stessa di violenza di cui è storicamente portatrice l’azione distruttrice di tutte mafie. (antonio grieco)

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