da: Infoaut
È stata pubblicata lo scorso 5 settembre la circolare sugli sgomberi del ministro Minniti che riassume il dibattito pubblico delle ultime due settimane: il sindaco Raggi ha più volte parlato di “soluzioni” per le “fragilità”, il capo della polizia ha chiesto invece “soluzioni” per evitare tensioni e gli sgomberi sono stati invocati per difendere i risparmi dei pensionati. Abbiamo chiesto a Sandra Annunziata, ricercatrice in Studi Urbani e docente a contratto di Urbanistica a Roma Tre, dove si occupa di emergenza abitativa e sfratti nelle città del Sud Europa, di aiutarci a capire di cosa si sta parlando in concreto.
Il ministro dell’Interno e il capo della polizia hanno più volte sostenuto in questi giorni che per procedere con gli sgomberi bisogna identificare “soluzioni alloggiative” idonee per gli occupanti, per evitare di esacerbare l’ordine pubblico. La Raggi dice: «Avanti con gli sgomberi, soluzioni solo per le fragilità, priorità ai diecimila romani in lista per la casa popolare»; ieri e l’altro ieri le forze dell’ordine hanno provato a imporre alloggi in casa famiglia o negli Sprar per chi vive al presidio di Madonna di Loreto. Ci sembra che ci sia una certa, non casuale, confusione nel fotografare l’emergenza abitativa romana. Ci aiuti a tratteggiare un quadro di insieme del problema?
Partirei dal sottolineare che stare più di un anno senza assessore alle politiche abitative e senza una figura di riferimento competente in materia è un fatto grave per la fisionomia assunta dalla questione abitativa a Roma. Detto questo il concetto di “fragilità” non esiste, nella lettura scientifica tuttalpiù si parla di disagio abitativo grave e/o vulnerabilità per riferirsi a soggetti che possono da un momento all’altro perdere la loro abitazione perché non hanno un reddito sufficiente per pagare un affitto di mercato e rischiano di diventare “senza fissa dimora”. Se consideriamo la classificazione europea ETHOS in questa categoria rientrano a tutti gli effetti coloro che oggi occupano a scopi abitativi.
I dati disponibili dimostrano che la domanda di abitazioni sociali oggi è molto complessa e riguarda una fascia estesa della popolazione: a coloro che presentano condizioni di disagio abitativo grave (penso ai senza fissa dimora) si aggiungono i lavoratori precari e coloro che hanno perso il lavoro, che non disponendo di reddito sufficiente per pagare l’affitto si sono visti pervenire una ingiunzione di sfratto, poi anziani soli con pensione minima, nuclei monoparentali, chi ha sottoscritto un mutuo prima della crisi e oggi non è più in grado di sostenerne il costo, gli sfrattati che da anni vivono nei CAAT (i cosiddetti residence che a loro volta “dovrebbero” essere chiusi in vista di una soluzione più adeguata) e infine, come si evince dai fatti di piazza Indipendenza, i rifugiati titolari di protezione internazionale che sono già passati nel circuito della seconda accoglienza e molti immigrati economici che non hanno raggiunto una piana inclusione abitativa per via del costo proibitivo degli affitti. Si tratta di una domanda sociale complessa che avrebbe bisogno di soluzioni differenziate.
Anche sul’ERP e sulla questione della graduatoria si fa confusione: la lista di attesa dell’ERP non è la fotografia completa della domanda abitativa per come si presenta oggi. Non solo perché le graduatorie sono ferme da anni m anche perché la cronica lentezza nell’assegnazione degli alloggi ha creato degli effetti perversi. I criteri di assegnazione di una abitazione ERP prevedono reddito annuo complessivo inferiore ai ventimila euro circa. Questo vuol dire che anche un giovane precario avrebbe in linea teorica diritto all’alloggio popolare; la realtà è che la cronicizzazione delle liste di attesa e la scarsità degli alloggi determina una selezione ulteriore rispetto ai criteri del bando, selezione che genera spiacevoli conflitti tra poveri. Per questo individuare determinate fragilità o riferirsi esclusivamente a chi sta in graduatoria ERP in una compagine così complessa è un ragionamento divisivo che non fa altro che complicare le cose e mettere in competizione i diversi soggetti che compongono la domanda sociale di abitazioni.
La vicenda di piazza Indipendenza ha portato alla ribalta i fondi di investimento immobiliare (con le figure sinistre che gli ruotano attorno). Su diversi quotidiani si è sostenuto che a pagare le bollette dei rifugiati fossero i pensionati che hanno investito nel fondo, ci aiuti a capire come sta funzionando alle nostre latitudini la finanziarizzazione del mercato immobiliare?
Che cos’è la finanziarizzazione? È molto complicato, proviamo a semplificare: è l’integrazione del mercato immobiliare con il mercato finanziario. Questo vuol dire che il valore di un immobile sul mercato prescinde dal suo valore patrimoniale e dalla sua rendita nel mercato urbano; prescinde pure dall’uso e dalla funzione che vi si attribuisce. Il suo valore viene tradotto in titoli di investimento e deriva dalla sua capacità di generare un flusso di cassa, proveniente da chi investe nel mercato finanziario e acquista questi titoli. In questo modo il gestore del bene ottiene la liquidità necessaria per gestire il bene, magari anche per rinnovarne la funzione. Bisogna ricordare che il mercato immobiliare è di per sé un mercato particolare: è poco trasparente, ha a che vedere con una risorsa scarsa (il suolo urbano) e pertanto è suscettibile di speculazione; inoltre è caratterizzato da scarsa liquidità. Proprio la scarsa liquidità ha fatto si che, negli anni Novanta, venissero introdotti in Italia degli strumenti specifici per finanziarizzare beni immobili (fondi immobiliari, cartolarizzazioni, società di investimento immobiliare).
Questo è quello che è successo a via Curtatone dove un fondo immobiliare (Idea Fimit) ha comprato l’immobile in liquidazione utilizzando la liquidità a sua volta derivante da un fondo pensione. Un fondo pensione è un fondo che ha la finalità di garantire una pensione integrativa a chi vi investe. Spesso sono i pensionati che acquistano titoli di questo tipo. Da quanto riportato dalla stampa in pochi anni la valorizzazione di via Curtatone avrebbe dovuto produrre una redditività di quattro milioni di euro, e i pensionati investitori avrebbero pagato le conseguenze della mancata disponibilità del bene. Affermare che vi sia una relazione diretta tra il pensionato e via Curtatone è però una forzatura di come funziona il sistema. Sarebbe più corretto dire che il pensionato ha investito in un fondo pensione irretito dalle promesse di redditività dagli investimenti della società immobiliare, tra i quali (del tutto casualmente) anche via Curtatone. Una narrazione in cui si contrappone un pensionato, una figura a cui si associa un pieno diritto di cittadinanza, una persona che ha lavorato tutta la vita, un contribuente stabile (possibilmente italiano, magari bianco) a un rifugiato che invece è arrivato adesso e vive in una condizione di cittadinanza minima, non aiuta la causa né del pensionato né del rifugiato che sono entrambi vittime del mercato finanziario globale che, diciamolo, non è solidale. Dovremmo meglio individuare le cause strutturali che hanno determinato la situazione di via Curtatone e dotarci di narrazioni adeguate a individuare “contro chi” e “a favore di chi” stare. (continua a leggere)
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