Una narrazione tossica, in Italia, si ostina a confrontare le rivendicazioni indipendentiste della Catalogna con le performance separatiste della Lega Nord: una battaglia effimera che i suoi promotori hanno già abbandonato, trovando un capro espiatorio più debole e conveniente nei migranti internazionali. Ma quella della Catalogna è un’altra storia, purtroppo da noi largamente incompresa. Proviamo a riassumere cosa sta succedendo in questi giorni, a poche ore dall’inizio previsto delle votazioni, convocate dalla Generalitat de Catalunya (il governo autonomo) per le 8:30 di domenica primo ottobre. Siamo alla conclusione di un “processo” costituente, el procès in catalano, che va avanti da molti anni, e che ha trovato sempre una fermissima opposizione da parte del governo spagnolo.
Il braccio di ferro attuale è iniziato lo scorso 7 settembre, quando il presidente del consiglio spagnolo Mariano Rajoy ha affermato che avrebbe fatto qualunque cosa per impedire il referendum per l’indipendenza della Catalogna. Il processo del referendum nasce dalla crisi del 2008; per contrastare l’impoverimento della popolazione il governo autonomo tentò di negoziare un nuovo patto fiscale, sempre rifiutato dal governo centrale. Naturalmente, l’amministrazione regionale non era affatto estranea alle politiche speculative che avevano precipitato il paese nel disastro; per la destra catalana allora al governo (il partito Convergència i Unió, guidato da Artur Mas) spostare l’attenzione pubblica sull’indipendenza era anche un modo per salvaguardarsi dalla rabbia popolare, che stava esplodendo nel movimento degli Indignados. Ma una volta soffiato su quel fuoco, non è stato possibile tornare indietro.
Le manifestazioni indipendentiste si sono susseguite con numeri da far girare la testa – due milioni in piazza l’11 settembre 2014 – e nel 2015 la presidenza della Generalitat è andata a una coalizione indipendentista di sinistra. La CUP, il nuovo partito che ha ottenuto quattordici seggi nel Parlament catalano, prevedeva nel suo programma elettorale un referendum per l’indipendenza – un programma peraltro approvato ufficialmente dalle autorità spagnole. Il 9 novembre 2016 c’è stata una consulta simbolica, contro cui di nuovo lo stato ha risposto con la repressione. Si stavano scontrando, di fatto, due opposti interessi elettorali: da un lato, i partiti indipendentisti avevano l’obbligo di rispettare la promessa fatta ai loro votanti; ma dall’altra c’era il Partido Popular, che da sempre, nel resto della Spagna, cavalca il sentimento anticatalano, appellandosi alla retorica dell’unità nazionale. España, una y grande, era uno dei lemmi del generalísimo Franco; ricordiamo che nel PP di Mariano Rajoy confluiscono i falangisti e i nostalgici del franchismo. Se non c’è una formazione di estrema destra in Spagna, è perché l’estrema destra si sente perfettamente a suo agio nel partito al governo.
Non sorprende che la sera del 7 settembre il Tribunale costituzionale abbia decretato l’illegalità del referendum: l’unità nazionale è alla base della Costituzione. Ciò che nessuno si aspettava era la repressione che ne è seguita: la Procura Generale dello Stato ha ordinato a tutte le forze dell’ordine – compresa la polizia catalana, i Mossos d’Esquadra – di sequestrare tutto il materiale necessario allo svolgimento del referendum, e di impedirne la celebrazione a qualsiasi prezzo. L’11 settembre successivo (la diada, la giornata con cui ogni anno si commemora la perdita dell’indipendenza catlana, tre secoli fa) centinaia di migliaia di persone hanno sfilato nelle strade di tutta la Catalogna reclamando il referendum; e il 20 settembre la Guardia Civil ha fatto irruzione al dipartimento del Tesoro (Hisenda) della Generalitat in pieno centro di Barcellona, per sequestrare il materiale elettorale. Nel corso della mattinata sono stati arrestati tredici funzionari, alcuni di altissimo livello, tra cui il presidente del più importante partito della sinistra indipendentista, Esquerra Repúblicana de Catalunya.
Da lì è iniziata l’escalation: il giorno stesso l’Assemblea Nacional Catalana (ANC), da cui è partito il processo costituente, ha convocato manifestazioni di protesta, sempre pacifiche: a Barcellona si sono radunate immediatamente cinquantamila persone. Ma la procura spagnola ha annunciato che i partecipanti a queste manifestazioni sarebbero stati denunciati per “sedizione”, con pene fino a quindici anni di prigione. Il giudice che ha firmato questo atto era stato ispettore del corpo superiore di polizia negli ultimi anni del franchismo, tra il ’74 e l’81. Le forze di sicurezza iniziavano a risultare insufficienti per l’enorme mobilitazione popolare; perciò il procuratore statale in Catalogna, il 23 settembre ha deciso di “commissariare” i Mossos d’Esquadra, ponendoli sotto il controllo diretto del ministero degli interni. La persona scelta per questo compito, il tenente colonnello Pérez de los Cobos, negli anni Novanta era stato accusato della tortura di un attivista basco. Suo padre era membro della formazione di ultradestra Fuerza Nueva.
Non era abbastanza. Il 25 settembre è iniziato il più grande dispiegamento di polizia antisommossa dell’era democratica. Tre navi da crociera italiane – di proprietà di Grandi Navi Veloci e Moby – sono state affittate dalla Policía Nacional per alloggiare circa cinquemila agenti provenienti da tutta la Spagna, pronti a sbarcare a Barcellona e Tarragona per evitare il referendum. Altrettanti agenti della Guardia Civil sono alloggiati in quindici grandi caserme; tutte le prefetture e le comandancias della Spagna sono rimaste sguarnite. La Guardia Civil nel corso degli ultimi venti anni si era lentamente ritirata dalla Catalogna, lasciandone il controllo ai Mossos, anche per l’aperta ostilità della popolazione a un corpo di polizia direttamente associato con il franchismo: il suo simbolo è ancora oggi una corona che sovrasta una spada e un fascio littorio incrociati. I lavoratori portuali si sono rifiutati di servire e rifornire le navi – una delle quali, paradossalmente, è decorata con i personaggi di Looney Tunes, Silvestro e Titti. L’hashtag #freePiolín (Titti libero) è diventato trending topic mondiale, a riprova del clima festoso e ironico con cui si sono svolte le sempre più numerose manifestazioni e caceroladas notturne dai balconi.
Difficile ricapitolare gli eventi di quest’ultima settimana. Mentre il governo proibiva ai media addirittura di nominare il referendum, sempre più persone, indipendentemente dalla loro lingua madre o “appartenenza etnica” hanno iniziato a vedere il processo costituente non più come una questione nazionale, bensì come la risposta a un’operazione repressiva senza precedenti. E la risposta è stata un’esplosione creativa. La Procura ha ordinato a tutte le forze dell’ordine, compresi i Mossos, di mettere i sigilli ai seggi, cioè alle seimila scuole della Catalogna indicate dalla Generalitat come sedi elettorali. Calcolando anche una percentuale di votanti molto bassa, è possibile che il primo ottobre per ogni seggio ci saranno cinquecento votanti e meno di due poliziotti a mettere i sigilli; così, le associazioni dei genitori hanno convocato “accampamenti di inizio anno” dentro le scuole, con giochi e attività per bambini tutto il fine settimana, in modo da trovarsi già nei seggi nel caso la polizia provi a chiuderli. In alcune scuole la direzione ha ordinato di togliere le porte, per assicurare l’accesso per domenica. Senza mai menzionare il referendum, naturalmente.
Nel frattempo continua la repressione alla libertà d’informazione, con la chiusura di siti web, subito riaperti su altri domini, anche grazie alla collaborazione di Julian Assange (questo naturalmente ha generato interpretazioni complottiste di ogni genere). I conti bancari di alcune associazioni culturali – tra cui i castellers, un gruppo folkloristico molto popolare – sono stati sequestrati per alcuni giorni, mentre gli ordini che il governo nazionale ha impartito a diverse entità autonomiche sono stati sistematicamente disobbediti. I pompieri hanno dispiegato sul Museo di storia di Barcellona un enorme striscione raffigurante un’urna elettorale con il motto “Love Democracy”; e oggi hanno fatto girare un messaggio su whatsapp: “Se domattina non vi fanno entrare a votare, sappiate che se segnalate un incendio, noi dobbiamo per forza aprire la scuola!”. I Mossos d’Esquadra stessi sembrano riscuotere ora il favore popolare: il loro direttore è diventato una figura quasi mitologica. D’un sol colpo sono state rimosse le memorie di tutte le violenze esercitate finora da questo corpo di polizia, sempre giustificate dal governo catalano: dallo sgombero degli Indignados a Plaça Catalunya, all’assassinio di Juan Andrés Benitez nel Raval, dalle torture nei commissariati, ai proiettili di gomma che hanno fatto perdere un occhio a diversi manifestanti.
Nonostante le contraddizioni, però, oggi è difficile rimanere fuori da questo processo. Anche tra gli anarchici, naturalmente ostili alle rivendicazioni nazionaliste, molti vi hanno riconosciuto un movimento di popolo senza precedenti contro uno stato che rivela sempre più chiaramente la propria natura fascista. È il caso di Solidaridad Obrera, il giornale storico della CNT, o di alcuni gruppi libertari di Gracia e di Vallcarca (vale la pena leggere anche questa riflessione del filosofo post-operaista Santiago López-Petit). Manuel Delgado, antropologo, sostiene che bisogna usare quest’opportunità irripetibile, quest’improvviso vuoto di potere, per incanalare la situazione nella direzione giusta, cioè verso un cambiamento dell’intera società, non solo dello stato. Sarà possibile? Sicuramente solo in Catalogna si trova questo nazionalismo includente, non xenofobo, che – almeno per ora – non si rivolge contro un altro gruppo etnico, ma contro le istituzioni. Anche nei quartieri a maggioranza non catalana come Bon Pastor, l’indipendentismo è molto forte e i voti per il “sì”, se domenica si riuscirà a votare, saranno tantissimi. È questa realtà quella che il governo spagnolo vuole nascondere, rappresentando il movimento per l’indipendenza come un conflitto etnico tra catalani e spagnoli.
Il vero nemico di questo movimento è lo stesso che avevano identificato anni fa gli Indignados: il cosiddetto “regime del ’78”, cioè il patto politico che regge la classe dirigente spagnola, l’accordo tra destra e sinistra stretto subito dopo la morte di Franco, che ha garantito impunità ai responsabili della guerra civile e delle violenze della dittatura, e che dura fino a oggi. Questo patto ha mantenuto in carica gran parte delle vecchie oligarchie del franchismo: oggi la Spagna è l’unico stato europeo erede diretto di una dittatura sanguinaria, senza una Norimberga né un nuovo accordo costituente. Non solo: il pacto del olvido ha tutelato la continuità della casa regnante, i Borboni, la cui presenza è illegittima dal 1931, quando un referendum popolare sancì la nascita della Repubblica spagnola. Fu Francisco Franco a restaurare la monarchia con la forza nel 1939, dopo la guerra civile, rinforzandola quotidianamente con le rappresaglie nel nome di España, una y grande; alla morte del dittatore, questo patto mantenne il paese in mano ai Borboni, con il silenzio complice dei partiti della sinistra. Nelle rivendicazioni di una Repubblica catalana, quindi, la qualifica di “catalana” è importante quanto la definizione di “Repubblica”: l’indipendenza sancirebbe innanzitutto la sottrazione di quest’importante pezzo di terra al dominio illegittimo del re. Chissà che questa presa di coscienza non si estenda anche al resto della Spagna.
Molti degli slogan di questi giorni rivelano il carattere intrinsecamente antifascista di questa lotta. Uno per tutti, “le strade saranno sempre nostre”, els carrers seràn sempre nostres. La frase è una risposta implicita alla famigerata affermazione di Manuel Fraga, ministro franchista, che nel 1976 impedì le manifestazioni del primo maggio affermando la calle es mía, la strada è mia. Fraga è stato, fino alla sua morte nel 2012, presidente della regione autonoma della Galizia; rappresenta il simbolo della continuità del regime franchista, più evidente che mai sotto il governo del Partido Popular, ma sempre presente in tutta la storia della Spagna democratica. Il voto per una repubblica catalana è innanzitutto un voto contro l’intollerabile continuità e impunità del fascismo spagnolo. Domenica, almeno in una parte della penisola, questa anomalia storica potrebbe concludersi. Cosa succederà dopo, nessuno può dirlo. (stefano portelli)
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Durante la giornata di domenica seguiremo in diretta gli eventi del referendum catalano, attraverso il sito Ladirecta.cat.
Alle 5,00 inizia a confluire gente verso i seggi elettorali, riunendosi con chi ha passato la notte all’interno (per lo più gruppi di genitori delle diverse scuole). Almeno mille e cento scuole sono state tenute aperte durante la notte, di fatto occupate, a volte senza autorizzazione della direzione scolastica. I mossos passano a verificare, ma non sgomberano, contravvenendo l’ordine ministeriale.
Alle 7,00 iniziano ad arrivare le urne e le schede. Un elicottero sorvola la città proiettando un fascio di luce. Molti furgoni di Policía Nacional, forse addirittura cento, avrebbero già lasciato il porto diretti in città. Il clima è festoso e conviviale, tutti si sentono parte di qualcosa di epico.
Violente cariche della Policía Nacional contro la popolazione riunita dentro e intorno ai seggi. L’obiettivo è sequestrare le urne e le schede. In molte sedi si continua a votare senza incidenti, e il sistema di voto elettronico permette di votare in qualunque seggio. Come protesta, si chiederà al Barcellona di non giocare oggi.
Trentotto feriti alle 13,00. Un poliziotto spara una pallottola di gomma in faccia a un manifestante. Nei seggi dove ancora si vota, tutti sanno che la polizia arriverà, ma nessuno torna a casa. Più affluenza alle urne che alle prime elezioni dopo il franchismo.
Aumenta il numero dei feriti. Si parla di oltre trecento. La delegazione di osservatori britannici composta di quattordici deputati dice di trovarsi “in stato di choc” per quello a cui ha presenziato. Ritiene che il referendum e il numero dei voti debbano considerarsi assolutamente validi. Denuncerà lo stato spagnolo alla corte penale dell’Aia.
Sono quasi cinquecento, alle ore 17,00, i feriti per le cariche della polizia. Sono stati sparati proiettili di gomma e gli agenti hanno caricato la folla in attesa davanti ai seggi. Nove persone sono state ricoverate, una è stata sottoposta a un intervento a un occhio perché colpita da un proiettile di gomma. Il ministero dell’interno ha dichiarato che le forze dell’ordine hanno arrestato tre persone, fra cui un minorenne, per “disobbedienza” e per aver attaccato gli agenti. In alcune immagini si vedono agenti della Guàrdia Civil colpire a manganellate decine di persone fra cui anziani seduti per terra in difesa del seggio. Agenti antisommossa hanno caricato con i manganelli anche un gruppo di vigili del fuoco catalani, in divisa e con il casco, che stavano presidiando un seggio.
Il portavoce della Generalitat, Jordi Turull, dichiara che lo stato spagnolo dovrà spiegare “davanti ai tribunali internazionali” le violenze della polizia contro il referendum. Sostiene che 319 seggi hanno dovuto chiudere per l’azione della Guàrdia Civil e della polizia nazionale. L’assessorato alla Salute della Generalitat sostiene che 761 persone hanno chiesto “assistenza sanitaria” dopo l’intervento della polizia contro il referendum in Catalogna. Dato aggiornato alle ore 20,00.
I sindacati confederali UGT e CCOO sostengono in un comunicato congiunto che l’intervento del governo centrale è stato sproporzionato e che “la soluzione di polizia non è la soluzione”. “Il tempo ci darà la dimensione del fallimento collettivo che stiamo vivendo”, dichiara il segretario generale di CCOO, Unai Sordo. Mentre il segretario di UGT, Pepe Álvarez, parla di “un conflitto politico che necessita di soluzioni politiche”.
Alle 20,20 il capo del governo spagnolo Mariano Rajoy compare in pubblico per alcune dichiarazioni. Difende l’operato del suo governo addebitando a “coloro che hanno promosso la rottura della legalità e della convivenza” tutte le colpe degli avvenimenti odierni e di quelli che hanno condotto alla situazione attuale. Sostiene che la Spagna è una “democrazia matura, avanzata, amabile e tollerante, ma anche ferma e determinata” quando bisogna fa rispettare lo stato di diritto. E il suo obbligo come presidente del governo è “di rispettare la legge e farla rispettare”. Per Rajoy “non c’è stato alcun referendum per l’autodeterminazione in Catalogna“. “Non c’è stata alcuna consultazione ma solo una messa in scena”, dichiara. A conclusione del suo intervento auspica di continuare ad avere l’appoggio dei partiti che difendono i principi costituzionali e annuncia che a breve convocherà tutti i partiti per discutere della crisi catalana.
Nonostante le violenze il referendum è comunque andato avanti: alcuni municipi segnalavano alle 20,50 già un 50% di affluenza. Nei piccoli centri si sono salvati dalla violenza solo interponendo macchine, trattori o camion davanti alla polizia. Mentre gli esponenti del governo spagnolo continuano a giustificare la gestione delle piazze, numerosi leader politici del mondo condannano fermamente il governo di Rajoy. Il bilancio finora è di quasi ottocento feriti di cui centoventotto ricoverati e due gravi. A Madrid, Valencia e altre città della Spagna si stanno svolgendo manifestazioni in solidarietà con la Catalogna e per le dimissioni di Rajoy. Diverse entità, tra cui il sindacato anarchico CGT, hanno convocato uno sciopero generale per martedì 3 ottobre.
Il “si” ha ottenuto il 90% dei voti, secondo i dati resi pubblici dal portavoce del governo catalano Jordi Turull. Al voto hanno partecipato due milioni e duecentomila elettori, sui cinque e trecentomila chiamati alle urne. Il “no” ha ottenuto il 7,8%. Migliaia di sostenitori dell’indipendenza, radunati in plaza Catalunya, hanno esultato all’annuncio dei risultati. “La partecipazione – ha spiegato Turull – avrebbe potuto raggiungere il 55% in condizioni diverse, cioè senza l’intervento nei seggi della polizia”. Il presidente Carles Puigdemont ha annunciato che trasmetterà i risultati del voto al parlamento nei prossimi giorni perché prenda decisioni in base alla legge del referendum. La normativa approvata in agosto, e sospesa dalla corte costituzionale spagnola, prevede che l’assemblea possa dichiarare l’indipendenza della Catalogna dopo quarantott’ore.
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