Tra i movimenti artistici nati a Napoli nel secondo dopoguerra, il Gruppo 58 – costituito da Del Pezzo, Persico, Di Bello, Biasi, Luca (Luigi Castellano), Fergola, Palumbo – si può considerare una delle esperienze più estreme dell’avanguardia italiana del Novecento. E questo perché il gruppo, che si distingue immediatamente per l’assoluta autonomia progettuale, nasce nel segno della negazione di una società che tende a rendere funzionale alla sua logica razionale e mercantile ogni aspetto della nostra esistenza.
A questo sguardo divergente – non lontano dal “grande rifiuto” marcusiano – i membri del gruppo associano una costante messa in discussione di tutte quelle espressioni della creatività legate a un’innocua dimensione identitaria e agli stilemi della pittura dell’Ottocento, rivolgendo invece il proprio interesse alle avanguardie storiche del Novecento, in particolare al Dadaismo e al Surrealismo, per poi approdare al Neodadaismo degli anni Cinquanta. In questa prospettiva di apertura all’Europa, decisivi per la loro formazione saranno gli scambi culturali con gli artisti milanesi, soprattutto col movimento nucleare promosso da Enrico Baj, con il quale alcuni esponenti del gruppo, come Biasi e Persico, stabiliranno un ininterrotto dialogo aderendo al suo “manifesto dell’arte nucleare”. Baj, infatti, sarà presente già nel titolo della loro prima esposizione alla Galleria San Carlo di Napoli: “Gruppo 58+Baj”.
In questa investigazione collettiva – che in una prima fase appare rivolta a indagare l’immagine in chiave di scrittura e poesia visiva – ciascun artista tende a ricercare i caratteri di una personale cifra poetica. L’altro aspetto decisivo sta nella straordinaria preparazione culturale di tutti i suoi membri – si pensi, per esempio, alle illuminanti analisi tra arte, filosofia e poesia di Biasi, Persico o dello stesso Luca, instancabile animatore delle più innovative iniziative culturali napoletane –, i quali diedero vita, intorno al 1959, a Documento Sud, una rivista che ospitò poeti e artisti della più spregiudicata sperimentazione europea; per l’impaginazione dei primi numeri, la rivista si avvalse delle notevoli doti artistiche di Lucio Del Pezzo.
È per questi motivi che tra i tanti eventi in corso in questi giorni nella nostra città, ci sembra che la mostra (aperta dal 12 novembre al 7 gennaio 2017) all’AICA (Andrea Ingenito Contemporary Art), Lucio Del Pezzo. Opere anni ’60. Napoli, curata da Andrea Ingenito e Piero Mascitti in collaborazione con la Fondazione Marconi di Milano, costituisca un’occasione unica, non solo per riscoprire la genialità di un artista che non esponeva in città da oltre un decennio, ma anche per riconsiderare un percorso collettivo che appare oggi ancora attuale, soprattutto se si pensi all’intelligente denuncia non solo di ogni conformismo estetico, ma anche di tutti quei meccanismi oppressivi del Potere che tendono a spingerci verso una triste colonizzazione dello sguardo.
Del Pezzo si allontana definitivamente da Napoli intorno al 1960, trasferendosi prima a Parigi e poi a Milano. Crediamo rappresenti una tappa non marginale del suo percorso creativo, perché proprio nel periodo in cui egli vi si trasferisce, è in corso nella capitale francese un vivace dibattito intorno alla necessità di riscoprire nell’arte moderna – dopo la lunga stagione dell’Informale e dell’Astrattismo – l’oggetto comune e le sue metamorfosi. Teorico di quello che verrà chiamato Nuovo Realismo, con evidenti echi di Duchamp e di Picabia, è il critico Pierre Restany.
La pittura di Del Pezzo, anche nei dipinti di questa piccola esposizione, va indagata alla luce di questo clima di rottura che interessa l’insieme della pittura europea. Le opere esposte nella galleria di Andrea Ingenito se, da un lato, fanno pensare – soprattutto nei colori e nella densa materia pittorica – a un filo mai del tutto interrotto con la nostra terra e le nostre tradizioni, dall’altro evocano l’idea, comune a tutti gli artisti del gruppo, di pensare l’esperienza creativa con ironia, con un atteggiamento dissacrante verso tutti i dogmi della morale borghese.
Per cercare davvero un’alternativa a questo mondo, la via maestra, sembra dirci Del Pezzo, è appunto l’Arte Ludica; un modo di comunicare attraverso il gioco, perché, per dirla con Freud, nel gioco vive la “potenza dell’irrealtà”; quel sapere poetico del mondo che accende l’immaginario di ogni bambino fin dalla sua nascita.
L’esperienza ludica attraversa quasi tutti i suoi lavori; è un gioco che spesso scaturisce da assemblaggi di materiali diversi, da imprevedibili associazioni tra oggetti disparati, dall’utilizzo di simboli archetipici. L’idea è quella di far vivere nelle opere un’epifania, una nuova alba del mondo liberato da ogni sorta di oppressione.
La cosa sorprendente dei suoi quadri-sculture – soprattutto se osserviamo opere come à Paris (1964), una grande scultura in legno coloratissima, realizzata con tecnica mista, che ci ricorda i bambocci della nostra infanzia, o La noia (1961), il cui fondo tufaceo contiene oggetti meccanici simboli del lavoro alienato – è un’esplosione immaginativa senza regola che evoca il linguaggio infantile. Una pittura liberata che si protende oltre l’orizzonte del presente – come nei numerosi Senza titolo, del 1962 – per farsi metafora del caotico flusso del divenire. Ma poi – scrivono i curatori della mostra – la figurazione neo-dadaista degli esordi, intrisa di riferimenti alla cultura popolare partenopea, evolve verso una geometria razionale di sapore metafisico.
Quando lascerà la città, le composizioni di Del Pezzo subiranno una lenta metamorfosi. Lo sguardo diventerà più lento e riflessivo. Sulle mensole dei suoi quadri-sculture scopriremo uova, birilli, manichini, bocce e tante altri oggetti; ma questi “resti”, a noi così familiari, li osserveremo sempre sospesi nel vuoto, spaesati in una loro primordiale liricità e purezza. E il territorio della percezione diventato coscienza non abbandonerà mai il sogno di liberare con l’arte l’uomo, la sua vita, il suo immaginario. (antonio grieco)
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