da Napoli Monitor n. 49, giugno 2012
Con La comunista (Giunti, 2012), Ermanno Rea ritorna a Francesca Spada, personaggio che ispirò l’appassionante Mistero napoletano (Einaudi 1995). Suicida per fare spazio al suo uomo, a cui gli stalinisti del Pci del dopoguerra negavano la carriera proprio perché colpevole di avere accanto una donna tanto esuberante e, a loro detta, dalla dubbia morale. In quest’ultimo libro il fantasma di Francesca compare (letteralmente) allo scrittore, accompagnandolo in una evocativa passeggiata tra i luoghi della memoria: i Camaldoli, la vecchia sede dell’Unità, il porto. Rea, raccontandole nei dettagli un convegno fatto nella primavera 2009, “I giorni della vergogna e del pianto collettivo dopo il Grande Scandalo” (i rifiuti. ndr), a più di dieci anni dalla pubblicazione di Mistero Napoletano ripercorre i temi, le polemiche, i dissidi di una generazione che stenta probabilmente ancora oggi a riconoscere il terrorismo psicologico dei suoi vecchi metodi. Ad aggiungere tensione alla discussione c’è la sacralità del luogo che la ospita, la chiesa di San Ferdinando.
Qualcuno, forse risentito per le dure accuse fatte al partito, afferma che Rea con quel libro non ha fatto altro che scrivere una storia d’amore, una banale faccenda personale. Ed è per difendersi da queste accuse forse che lo scrittore, mediato dal fantasma di Francesca (bello e giovane perché bloccato nell’attimo del suicidio), lascia trapelare il suo messaggio politico: il Mezzogiorno può farcela, se crede in se stesso e ha il coraggio di credere nell’utopia. In cosa consiste quest’utopia? Rivendicare autonomia amministrativa, si badi bene, non separatismo, e fare i conti da soli con le “interne forze del male”, “abitando luoghi finalmente liberi da tutti i lavori nocivi e alienanti, a cominciare dalla catena di montaggio, dalla fabbrica tradizionale in genere”. Come se le fabbriche qui ce le avessero impiantate i cattivi indigeni. Come se dietro gli inceneritori non ci fossero scatola dentro scatola Impregilo Cesare Romiti la Fiat. C’è qualcuno che perpetuando un secolare sciacallaggio ha fatto quotare in borsa tonnellate di ecoballe parcheggiate in quel tempio della modernità che è Taverna del re, in attesa di essere bruciate. Ma di che stiamo parlando? L’utopia?
Per farvi un’idea delle fondamenta che dovrebbero reggere l’edificio del libro di Rea (stampato con interlinea improponibile e affiancato a un racconto già edito da Sellerio ma a suo tempo ambientato in una campagna laziale), basta guardare la sua comparsata nel programma televisivo di Fabio Fazio. Un uomo impacciato – sarà la tv? – che legge un testo su l’impossibile, alias puntare all’utopia per evitare il conformismo. Discorsi ultramacinati di quella sinistra incapace di riconoscere che questi suoi imbarazzanti inviti, retorici, populisti e digeriti persino dai grandi marchi (Adidas docet: “impossible is nothing”) sono una delle cause maggiori della sua evaporazione dal parlamento, oltre che motivo principale di tanta disillusione da parte dei più giovani.
Che Napoli deve risorgere l’abbiamo sentito troppe volte per dargli ancora peso. Quando si capirà che la Campania è la punta di un iceberg chiamato Italia? Che le peggiori pratiche politiche vengono sperimentate qui – dove le popolazioni da secoli sono state educate a essere dominate – e poi esportate al resto della nazione? Prima della Val di Susa, i luoghi di rivolta legati alla vicenda rifiuti furono dichiarati aree di interesse strategico nazionale, ossia militarizzate e impermeabili a qualunque dissenso. Prima del G8 di Genova, piazza Municipio fu palestra di gestione sudamericana della protesta in pieno occidente, e via dicendo. È a questo popolo a cui non è stato risparmiato nulla che chiediamo di votarsi all’impossibile? L’impossibile, strappato al consolatorio chiacchiericcio televisivo, è quanto stato e poteri mafiosi, spesso in simbiosi, sono riusciti a riversare nelle nostre terre. Impossibile è immaginare che, dopo anni di malaffare, un imprenditore come Romeo venga riabilitato dall’ennesimo “sindaco rivoluzionario”.
Va un po’ meglio leggendo gli Esercizi superficiali di Raffaele La Capria (Mondadori, 2012). Il libro inaugura una collana, “Libellule”, che vorrebbe, attraverso riflessioni leggere dal linguaggio letterario affrontare a pelo d’acqua le angosce del nostro tempo. Le pagine migliori sono quelle che in un modo o nell’altro ruotano intorno alla vecchiaia, ossia su un tema che un novantenne non può che conoscere bene. È amorevole (da buon nonno) quando suggerisce a una giovane figlia di amici una sua ideale lista di libri (più che di una lista si tratta di un metodo: partendo dai classici rimbalzare, seguendo impercettibili rimandi interni, da un titolo a un altro). O quando ci racconta del suo vicino ultraottantenne che passa l’estate a Roma per non abbandonare il gatto. Semplice ed efficace il capitolo (di due o tre pagine come tutti gli altri) dove riporta e commenta un vecchio reportage di una sua visita a una centrale nucleare del Piacentino.
Ti cadono un po’ le braccia però quando ti accorgi che La Capria ha scoperto la scomparsa della Napoli di Di Giacomo da un film come Passione, trattenendo a stento le lacrime, e allora intuisci che ogni considerazione sulla città è poco credibile. È evidente che lasciando la città al tempo di Murolo, La Capria abbia come fermato le lancette in un tempo che aveva già visto seppellito la Napoli delle canzoni d’amore truci e appassionate sotto le macerie di una lingua sbriciolata a colpi di Sanremo e Caroselli già dai tempi di quel suo lucidissimo Mani sulla città.
Sul frontespizio di La Capria il nome dell’autore è il quadruplo del titolo e, scusate, viene da pensare a una certa malizia da parte dell’editore. La copertina di Rea è una foto ben trattata della protagonista del libro, in un rosso bello forte che insieme al titolo finisce con l’attrarre una precisa fetta di pubblico. Questi aspetti dell’editoria li conosciamo bene ma, insomma, non bastano due grandi nomi e belle copertine a fare buoni libri. Non sempre. (cyop&kaf)