Il 14 marzo si ricordava l’assassinio di Marielle Franco, consigliera comunale di Rio de Janeiro per il PSOL (Partito Socialismo e Libertà), uccisa insieme all’autista Anderson Gomes da tredici proiettili provenienti da un’auto appostata vicino alla loro.
Marielle era una militante nera, femminista e lesbica, impegnata nella lotta contro le disuguaglianze in una città come Rio, dove le urgenze del capitalismo globale le paga chi sta al margine e dove spesso il margine coincide con il non essere bianco. La sua esecuzione politica sembra la tragica anticipazione delle elezioni che sarebbero avvenute sei mesi dopo e che avrebbero segnato la vittoria della destra neofascista, supportata dagli evangelici, nostalgica della dittatura militare. Le parole di Marielle nel frattempo hanno continuato a fare da detonatore e da eco alle lotte sociali, antirazziste, femministe e transfemministe in diverse parti del mondo.
Nel giorno del terzo anniversario della sua morte, il 14 marzo, a Londra un corteo di più di mille persone sfidava il coprifuoco per urlare la rabbia per l’omicidio di Sarah Everard, sequestrata e uccisa da un agente di polizia mentre tornava a casa. Prima che il suo corpo fosse trovato in un bosco, la polizia continuava a raccomandare alle donne che era meglio “non uscire da sole”, come se il problema fossero le donne che escono da sole e non la violenza maschile che può farle a pezzi, in questo caso agita da un garante della sicurezza. Se gli arresti e i linciaggi arbitrari per mano della polizia rimandano a scene di criminalizzazione pregiudiziale sulla base della razza e dell’estrazione sociale, in particolare nei quartieri poveri – “Le morti hanno razza, colore, classe sociale e territorio”, scriveva Marielle – qui la vittima è una cittadina inglese e bianca, con la colpa di camminare da sola per strada dopo le 21. Con la colpa di essere una donna, che cammina da sola per strada dopo le 21. Le manifestazioni Reclaim the streets hanno visto marciare insieme donne, lesbiche, trans, nere, migranti, cittadine inglesi in un urlo contro la polizia che uccide, contro il sessismo che criminalizza la vittima e non il violentatore.
Il restare a casa è un invito tutt’altro che rassicurante per molte donne che durante il confinamento sono state costrette a dividere lo spazio domestico con un compagno abusante. Non è un caso che da marzo 2020 in Italia le richieste di aiuto nei centri antiviolenza siano aumentate in maniera consistente, come sono aumentati i femminicidi. L’ultimo di cui si ha notizia è quello di Ornella Pinto, ammazzata dal compagno il 13 marzo nel quartiere San Carlo Arena a Napoli. Il tredicesimo femminicidio dall’inizio dell’anno. A distanze e latitudini diverse, le storie di Sarah e Ornella si legano a doppio filo con l’omicidio di Marielle.
I CORPI FEMMINILI COME “COSA PUBBLICA”
Alla base della violenza contro le donne, da quella istituzionale al “raptus” di un marito aggressivo, passando per quella poliziesca, c’è il controllo formale e informale delle vite e dei corpi femminili: dal dibattito sull’aborto al compagno che può farti a pezzi per un rifiuto, la matrice comune è la convinzione che i corpi femminili siano “cosa pubblica” di cui discutere, di cui disporre, su cui esercitare proprietà. Questo si rende ancora più evidente per quei corpi dissidenti, non addomesticati al ruolo di madri e mogli mansuete. Si fa evidente per chi come Marielle ha portato la sua esperienza di favelada, nera, femminista e lesbica in consiglio comunale a Rio, irrompendo in quei luoghi di potere che la volevano al margine, funzionali alla riproduzione dell’esistente.
Anche sfidare un coprifuoco imposto per ragioni sanitarie diventa l’occasione buona per criminalizzare una donna che non stava a casa, dove avrebbe dovuto rimanere “invece di andarsela a cercare”. Un po’ come quando indossare una minigonna diventa un automatico invito allo stupro. Questa criminalizzazione, questo controllo sui corpi e sulle vite, è lo strumento che legittima alcuni uomini a “dare una lezione” alle donne che dicono no, che rifiutano, che non accettano, che denunciano.
Senza dissotterrare, senza andare alle radici di questa cultura del controllo, aumentare il numero di poliziotti per strada o le carceri per uomini violenti sarà l’ennesima risposta militare al problema della violenza sistemica, quella dei discorsi pubblici sui corpi femminili, quella dell’immaginario imposto, quella sottile e quella manifesta, quella agita in silenzio e quella mandata giù con un sorriso amaro di imbarazzo.
SICUREZZA, PER CHI?
La militarizzazione è parte del problema, soprattutto in quei territori marginalizzati dove questa contribuisce a rafforzare il discorso della sicurezza “contro le classi pericolose”, contro quelle vite più esposte alla violenza dello stato, il cui futuro sembra già scritto.
In un discorso pronunciato prima di venire freddata dai suoi aguzzini, Marielle ricordava come la sicurezza pubblica non si costruisce con più armi, ma con politiche pubbliche dirette a tutti i settori, alla salute, all’istruzione alla cultura e alla creazione di reddito e di posti di lavoro. “Prima di rivendicare e comprendere cosa significasse essere una donna nera in questo mondo, io ero già una favelada”, dice in un’intervista raccolta in Laboratorio favela. Violenza politica a Rio de Janeiro uscito per Tamu edizioni proprio il 14 marzo. Sapeva bene che questa combinazione, essere una donna nera della favela, è quella che più risente della violenza patriarcale e della militarizzazione dei quartieri poveri: “Chi soffre di più sono le donne, le donne faveladas i cui figli sono vittime di violenza in carcere”, le donne che non hanno accesso a infrastrutture pubbliche, centri educativi, lavorativi e culturali.
“Anche se queste donne fossero tutte lavoratrici – continua Marielle – le differenze di classe esisterebbero ed esistono anche nelle favelas, e si accentuano a causa delle precarietà delle condizioni di lavoro. L’esposizione a situazioni di violenza letale è qualcosa di comune, come lo sono l’esperienza della discriminazione e la stigmatizzazione”
IL “LABORATORIO” FAVELA
La violenza politica messa in atto a Rio de Janeiro nelle favela come laboratorio di sperimentazione del neoliberismo autoritario rende esplicite quelle striature, quelle linee di colore, classe e genere che dividono i territori, creando gerarchie tra chi ha diritto a una vita degna e chi no, tra chi ha la possibilità di scelta sul proprio futuro e chi no, tra vite che contano e vite che non contano. Ed è qui, che “le morti hanno razza, colore, classe sociale e territorio”.
“I porcellini d’India di questo laboratorio sono i ragazzi e le ragazze nere, chi vive nelle periferie, nelle favelas, i lavoratori. La vita delle persone non può essere un esperimento per i modelli di sicurezza. Additare le favelas come posti pericolosi, spaventosi se paragonati al resto della città, rafforza il mito delle classi pericolose, come riporta la psicologa Cecilia Coimbra quando afferma che la favela viene concepita come il principale nemico pubblico.”
Senza voler azzardare paralleli tra sud globali, queste parole di Marielle sembrano parlare con incredibile efficacia anche al contesto di una città striata dalle disuguaglianze come Napoli, in cui lo scorso anno la polizia ha ucciso due ragazzi provenienti da quartieri poveri, Ugo e Luigi, mentre l’opinione pubblica non tardava a criminalizzarli, insieme alle famiglie, come espressione di quel sottoproletariato non istruito facile alla delinquenza. In fondo anche loro “se la sono cercata”.
SIATE FEMMINISTI, MA SIATELO VERAMENTE!
Il razzismo, scriveva Fanon, non si limita semplicemente a deprivare le sue vittime delle loro risorse economiche e del loro status sociale. Le deumanizza e le depersonalizza, lasciandole abitare in una “zona di non-essere, una regione straordinariamente sterile e arida, una rampa essenzialmente spoglia, da cui può sorgere un nuovo inizio”. Uscire da questa deumanizzazione implica spezzare il meccanismo con cui l’intreccio di sessismo, razzismo e classismo agisce dentro e fuori di noi nel creare divisioni e gerarchie, nell’esporre alla violenza alcuni corpi e nel consolidare i privilegi di altri, nel criminalizzare la vittima e non l’aguzzino, come nel caso della donna che non sta “al suo posto” e non chi si è sentito legittimato di ucciderla per darle una lezione, additando come criminale un ragazzino che va in giro con una pistola finta per rubare un orologio e non il poliziotto che non ha esitato a sparargli alle spalle. Umanizzare, all’interno delle nostre differenze, è forse il nuovo inizio di cui parla Fanon.
“È all’interno delle nostre differenze – scriveva Audre Lorde – che siamo al tempo stesso più potenti e più vulnerabili, e uno dei compiti più difficili nelle nostre vite consiste nel rivendicare le differenze e nell’imparare a usarle come ponti piuttosto che come barriere tra noi”.
A creare questi ponti può essere solo il collettivo sforzo di questionarsi, mettendo in discussione le proprie posizioni, i propri privilegi.
Virginie Despentes, scrittrice e regista francese, quando durante un’intervista le hanno chiesto come far fronte alla violenza sulle donne, ha risposto così: “Non riesco a capire perché in questioni così gravi come lo stupro sono le donne che si riuniscono a parlarne e non gli uomini; ancor più quando questo accade in ambiti di sinistra e dei movimenti sociali. Gli uomini devono pensare che lo stupro è affar loro, noi ne abbiamo fin sopra i capelli. Se non vi interessano i nostri problemi, per favore, ditelo chiaramente e faremo una guerra. Ma, se decidiamo di vivere insieme, sedetevi a pensare e comportatevi di conseguenza. Siate femministi, ma siatelo veramente”.
L’omicidio di Ornella, di Sarah, di Marielle, di tutte le donne uccise per mano della violenza machista e razzista riguarda tutte e tutti. Così come ci riguardano le vite di Ugo e Luigi e tutte quelle altre spezzate “per sbaglio”, in quanto vite più esposte, che valgono meno.
Lunedì 22 marzo alle 16 in piazza Giambattista Vico, nel quartiere Arenaccia, si terrà un presidio, organizzato da Non Una di Meno Napoli per ricordare Ornella e le donne vittime di violenza, ma soprattutto per ricordare “che la vita di tutte ha valore”. (cecilia arcidiacono)
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