Un gruppo di operatori, artigiani e venditori ambulanti che da venti anni espongono e vendono la propria merce negli spazi della Rotonda Diaz, ha incontrato ieri l’assessore al lavoro del comune di Napoli Enrico Panini, per discutere del mancato rinnovo del permesso annuale di occupazione di suolo pubblico che consente a diciassette persone di operare in piazza. L’interdizione da parte dell’amministrazione coincide con l’approssimarsi di un evento quale il Summer Village, un “villaggio turistico” che animerà il lungomare da giugno ad agosto, grazie all’istallazione di ventotto stand di attività ristorative e commerciali.
La proposta ricevuta dagli ambulanti da parte dell’amministrazione consiste nello spostamento dei banchi nei pressi dell’acquario, un luogo assai meno frequentato soprattutto con l’arrivo delle giornate più calde, e che comunque prevede costi di occupazione molto superiori (quasi triplicati, a detta degli operatori) rispetto a quelli attuali.
Mario è uno dei diciassette ambulanti. Ha quarantanove anni, lavora l’acciaio e il cuoio, ed espone i suoi prodotti in Rotonda Diaz dal 1997.
Già lo scorso anno, a giugno, i vigili urbani ci hanno sgomberato dalla Rotonda Diaz, in occasione di un altro evento organizzato dal comune, il Pizzafest. Da quando non ci rinnovano i permessi ho dovuto abbandonare la mia casa ai Camaldoli, che non potevo più pagare. Così ho preso parte all’occupazione della scuola Belvedere. Sul momento è stata una soluzione, ma è stato difficile abituarsi a una situazione del genere. Al fatto di avere bagni in comune, lontani dalle camere da letto, o al fatto che per cucinare un piatto di pasta dovevamo fare cinquanta-sessanta metri con i pentoloni pesanti. L’occupazione è durata tre mesi, poi siamo stati cacciati e abbiamo occupato la sala consiliare del comune. Abbiamo fatto un sit-in con tende e valige sotto palazzo San Giacomo. Alla fine l’amministrazione ha deciso di sistemarci nell’Hotel delle Terme, ad Agnano. Da un paio di mesi viviamo qui. È una situazione strana. Siamo immersi nel verde, tra saune e piscine però non teniamo né soldi né lavoro, siamo completamente isolati dal mondo.
La mia passione per l’artigianato ha radici lontane. A dodici anni, con una situazione complessa in famiglia, me ne andai di casa e ho iniziato a viaggiare. Erano da poco iniziati gli anni Ottanta. Roma, Bologna, vagavo per le piazze, me ne andavo di concerto in concerto. Ho visto Lou Reed, i Police. Nel frattempo iniziavo a realizzare i primi lavoretti artigianali, influenzato dalle culture e dalle tecniche che avevo imparato da persone provenienti da tutte le parti del mondo. Afgani e pakistani, soprattutto, che avevo conosciuto in giro. Mi mantenevo con quello, e quando mi capitava vendevo un po’ di erba. Dicimm’ ca ero ‘nu freak! Un po’ per evadere, cercavo la vita di strada, giravo la notte tra ostelli, case di amici e di ragazze, e iniziavo a fare le prime esperienze con le droghe.
Dai tredici ai trentatré anni ho passato le pene dell’inferno. Mi compravo la cinquecentomila lire di eroina nella 167; mi facevo dare il metadone dal SERT per continuare a farmi e finivo pure tre-quattro bottiglie di whisky al giorno. Il mio organismo si è plasmato con alcool e sostanze, sono arrivato a momenti in cui riuscivo a ubriacarmi solo dopo il quarto giorno che bevevo, per poi riprendermi quindici giorni dopo. Ero un alieno, nel corpo e nella mente. Certe volte pure l’aria mi dava fastidio. Dopo tutti questi anni nel 1991 mi convinco a passare per alcune riunioni di alcolisti anonimi, nella chiesa anglicana di San Pasquale. Però quello che dicevano da un orecchio mi entrava e dall’altro mi usciva. Vedevo persone troppo diverse da me per insegnarmi qualcosa. Passa il tempo e poi succede una cosa strana. Hai presente quando delle parole ti riaffiorano dopo mesi o pure anni? Improvvisamente, dopo un sacco di tempo, ho capito che volevano dire quelle cose, quei libri che ci facevano leggere, ma c’ho messo nove anni.
A quel punto avevo trentatré anni e di amici ne avevo visti andare via abbastanza. E così incominciai a provare a uscirne sul serio, ma lo dovevo fare da solo. Troncai uno dei pochi rapporti che mi erano rimasti, un amico con cui mi facevo. Gli dissi che non doveva più chiamarmi. All’epoca stavo a via Nuova Poggioreale, ogni sera segnavo sul muro una X per ricordarmi che non avevo toccato nulla, pur avendo sul tavolo scatole di Noan, Valium e Tavor, oltre alle cravatte e le cinture con cui mi ingrossavo le vene del braccio. Furono giorni durissimi. Passai sei mesi senza quasi dormire. E poi diarrea, vomito, sudavo medicine dal corpo. Però lo sapevo che una volta uscito nessuno mi avrebbe dato un premio, semplicemente mi stavo riprendendo la mia vita. Oggi sono quindici anni che non tocco un bicchiere di vino e non fumo neanche uno spinello. La sola dipendenza, se si può definire tale, è il caffè e qualche sigaretta.
Mio fratello più grande, diversamente da me, ha sempre avuto le idee chiare. Era artigiano, lavorava ottone, argentone, oro e faceva delle cose bellissime. Girava tutta l’Europa, andava spesso in Turchia e in Medio Oriente. Io non l’ho mai raggiunto, era troppo più grande di me, ci passavamo tredici anni, sarei stato più un peso che altro. Però la passione per il lavoro manuale me l’ha trasmessa lui. In tutti i miei lavori cerco di raggiungere un risultato sempre originale e mai scontato, diverso dalle cose commerciali o industriali. Insomma quando lavoro, mi lascio portare dalla creatività e dalle potenzialità di ogni materiale. Faccio cose con spago, cuoio, fil di ferro, lavoro con piccoli utensili, dalle pinze fino alle lime, i seghetti. Quello che ho fatto di più nel corso degli anni sono stati accessori da uomo, bracciali in particolare. L’uomo quando acquista una cosa è più deciso, compra più facilmente. Per dirti, la donna magari compra due prodotti, ma prima mi fa perdere tre quarti d’ora. Le persone che considerano l’artigianato un hobby non mi sono mai piaciute. Mi sono sempre sembrati nu poc’ figlie ‘e papà.
Comunque, dopo che mi ero ripreso dalla droga feci un incontro. Era il ‘95. Assieme a una decina di persone con cui portavo avanti un’associazione vidi Bassolino a piazza San Domenico Maggiore e lo fermai. Gli parlammo del nostro percorso, ognuno di noi teneva dietro storie difficili, ma allo stesso tempo sapeva fare qualcosa e voleva darsi da fare. Artigianato, bigiotteria fatta a mano, attività che mettevano assieme manualità e creatività. Ricorremmo a una legge, la 121 del TULPS (Testo unico leggi pubblica sicurezza, ndr) che prevede il rilascio di licenze per mestieri girovaghi senza registrazione alla Camera di Commercio. E l’anno successivo arrivarono sei permessi. Senza mezzo litigio ci mettemmo d’accordo tra di noi, e decidemmo di destinarli a chine aveva più necessità. Io ero uno di quelli.
L’associazione l’avevamo fatta nel 1994. ACAIR: Associazione culturale artigiani italiani riuniti. Facciamo soprattutto artigianato, per mercati itineranti e fiere in tutta la Campania. Però portavamo avanti anche iniziative sociali, percorsi di recupero per tossicodipendenti e alcolisti. Per quanto riguarda me, poi, c’era un impegno particolare per quest’aspetto. Organizzavo banchetti di sensibilizzazione, andavo con le unità mobili alla Pineta di Castel Volturno a distribuire preservativi e siringhe ai neri. Non ero uno specialista, al massimo mi confrontavo con loro, ma ho sempre avuto un approccio diretto. Non ci è mai venuto in mente di fare una “comunità”.
Negli anni ho avuto un sacco di passioni, non solo l’artigianato. Il mio interesse si è mosso sempre nella direzione di ciò che era manuale, ma anche nuovo, diverso, dinamico. La musica è stata una folgorazione e una compagna di vita. Da piccolo impazzivo per la batteria, solo che costava assai e allora un giorno ricevetti in regalo una chitarra. Me la portavo in giro per tutta Italia. Ho composto una quarantina di brani, voce e chitarra. Ne componevo uno ogni quattro giorni. La maggior parte sono personali, non li ho mai pubblicati. Quelli più commerciali li ho messi su Youtube con un nome finto: Dragoferciaro.
A catena, con la musica, ho scoperto altri interessi, quelli per l’elettronica e l’informatica. Ho iniziato con i sintetizzatori, per crearmi le basi su cui cantare e sono finito per montare, smontare e rimontare computer interi. Cercare pezzi di ricambio, rivenderli. Da quando non mi consentono di vendere onestamente i prodotti a mano che lavoro, faccio soprattutto questo. Poi c’è stata l’associazione. Qualche volta mi sono chiesto se mi avrebbe fatto piacere lavorare a tempo pieno nel “sociale”, ma io se non faccio cose manuali non sto tranquillo. E poi mi sono detto: nun me pozz’ fa ‘e sorde ‘ncopp’ ‘a coccos ca m’ha levat’ ‘a vita. Io penso che se vuoi aiutare una persona a uscire dalla dipendenza non lo devi fare per soldi. É volontariato nel vero senso del termine, è un po’ come se fossi il responsabile spirituale di quella persona. Va a finire che pure lui percepisce sennò che tu stai lì solo pe te piglia’ ‘a mesata. Certo lo so che se lavori in questo settore in qualche modo devi campare, ma io dall’altra parte ci sono stato, ho ricevuto una specie di miracolo, e un miracolo non te lo puoi vendere. (dario cotugno)