Piango da ore Bruno Pesaola. Con lui, per me, è morto anche un po’ il gioco del pallone. Fisso una foto in bianco e nero: il Petisso ride – lui rideva, non sorrideva – e si sfrega le mani mentre a terra ci sono decine di palloni. Vorrei raccontare al mondo che uomo eri, Mister. Vorrei ricoprire di ridicolo quei cialtroni del mondo del calcio che insieme tante volte abbiamo preso per il culo. Ti sfregavi le mani alla vista dei palloni perché quello era lo strumento del tuo mestiere, e allenatori bravi come te non ce ne sono stati.
Bruno Pesaola ha vinto nel 1969 uno scudetto a Firenze potendo contare su tredici giocatori. Il turnover è una messinscena. Era andato via da Napoli un anno prima perché voleva vincere il titolo dopo aver portato la squadra al secondo e al terzo posto, ma la proprietà Lauro non gli garantiva il salto di qualità. Me la ripeteva spesso questa cosa. «Il salto di qualità bisogna fare». Andò a Firenze per stare più tranquillo, non voleva prendersi responsabilità non sue per la mancata vittoria dello scudetto in azzurro, e in Toscana gli chiedevano solo la salvezza di una squadra piena di debiti.
A Napoli ci era arrivato nel 1952, da giocatore. Lauro e Monzeglio volevano prendere Nyers, ma l’Inter rifiutò l’offerta. Ripiegarono sul Petisso, mezzala sinistra che al Collana strappava applausi a ogni giocata. Lo corteggiava il Milan ma la moglie lo convinse ad accettare Napoli, perché il fratello, impiegato della Siae, lavorava in città e ne era innamorato. Se ne innamorò anche Pesaola, che qui ha deciso di trascorrere tutta la vita. Stava aspettando l’arrivo del caldo, gli avrebbe portato giovamento al fisico acciaccato. Ha fatto in tempo, però, a sentire dell’addio di Benitez, il che mi consola. «Per vincere bisogna tirare in porta», mi diceva.
L’ultima volta sono andato a trovarlo la settimana scorsa. Gli regalai una foto che lo ritraeva commosso al San Paolo. Era la sua ultima stagione da allenatore del Napoli, 1982/83. Una salvezza miracolosa, preludio all’arrivo di Maradona. Era una squadra rattoppata, quella, e all’ultima giornata il pubblico gli dedicò un lungo applauso. Lui uscì in lacrime. Nella foto si vede Ramon Diaz: «Maradona non sarebbe mai venuto senza quella salvezza», mi ha detto. La storia del Napoli è stata la sua storia.
Pesaola era un uomo meraviglioso. Ho sempre avuto la sensazione di essere in qualche modo a lui legato. Me lo diceva la profondità del suo sguardo, due occhi neri e sognanti. Spesso lo alzava al soffitto, quello sguardo, e io vedevo i suoi ricordi comparire tra di noi. Mi raccontavano di un uomo che si era impegnato fin dall’inizio per veder realizzati i suoi desideri. Da bambino andava a fare la spesa ai vicini del quartiere di Barranca Belgrano, Buenos Aires: con le mance si comprò le prime scarpette da calcio. «Perchè un conto è giocare scalzi, un conto è con le scarpette. Sai quanti ragazzini erano fenomeni in strada e con i tacchetti non riuscivano a fare neanche un passaggio?».
Quando la Roma lo ingaggiò, nel 1947, si fece prenotare un biglietto aereo da Montevideo, e non da Buenos Aires. Non aveva mai viaggiato, non ne aveva la possibilità. Così prese il piroscafo che dall’Argentina va in Uruguay, e restò sveglio tutta la notte a ballare, a far festa. A Roma arrivò con i baffetti, in campo era “tenace e combattivo”, lo descrivono così le cronache dell’epoca. In più, però, aveva un estro irritante. Gimona, centromediano del Palermo, gli spezzò una gamba per vendetta. Lui recuperò, si fece notare dal Novara. Silvio Piola lo invitò a provare.
Ma Pesaola era e resta uomo del sud. Novara lo rendeva triste, così come il brutto tempo degli ultimi giorni lo sconsolava. A Napoli trovò casa, ci è rimasto otto anni da calciatore e si è seduto per tre volte sulla panchina azzurra, da allenatore. Quando smise maglia e pantaloncino aprì un negozio di scarpe. Il padre era calzolaio. Ma il presidente della Scafatese lo convinse ad allenare i suoi, chiedendoglielo quasi in ginocchio. A Napoli ha vinto una coppa Italia dalla serie B, impresa mai riuscita a nessun altro. Al ritorno dalla finale di Roma fu costretto a nascondersi per evitare che l’abbraccio della città lo soffocasse. Era un uomo riservato, in questo eravamo simili, e forse proprio per questo mi voleva bene. Perché non avevamo bisogno di tante parole. (davide schiavon)