S’alzano le zanzare in un’afa di agosto. Durante il dialogo le donne intervengono, raccontano, una si alza e se ne va, un’altra prende la parola mentre cucina poco lontano. Ora riconosco la voce di Claudia accompagnata da un coro di testimonianze. «A loro [le istituzioni] non frega nulla di noi, ci sono bambini qua, ci sono anziani, malati, alcuni devono andare in ospedale, ma non interessa a nessuno. Ci hanno detto: “Vi diamo mille euro e non dovete più tornare qui”. Quando andiamo a prendere questi mille euro, non dobbiamo più tornare».
«Verranno e ci spaccheranno la baracca».
«Possiamo anche andare in un altro posto, vicino alla strada, in un giardino, a loro non interessa. L’importante è che noi veniamo fuori da questo campo. E poi, se andiamo a fare un altro campo, vengono di nuovo per sgomberare. Non si può fare niente».
«Hanno detto che loro spaccano comunque. Se accettiamo i mille euro, spaccano. Se non li accettiamo, spaccano».
«Siamo simili – interviene Claudia –, abbiamo la stessa età e sono anche io straniera. Allora ti chiedo, tu adesso cosa provi di sentimento?».
«Non ci sentiamo bene perché tra dieci giorni dobbiamo andare; ma dove andiamo? Non abbiamo nessuna soluzione. Se vado in un campo o per strada, non posso dormire lì. Cosa facciamo, andiamo a Porta Susa vicino ad altri? Hai visto quanti sono a Porta Susa?».
«Ciao, signora! Siediti qua», urla la mia amica.
Il campo informale esiste da più di dieci anni, molti si sono trasferiti qui dopo lo smantellamento delle abitazioni sul Lungo Stura Lazio – erano gli anni di governo dell’amministrazione precedente. A inizio agosto la polizia municipale si è presentata in via Germagnano e ha consegnato agli abitanti una dichiarazione da sottoscrivere. I fogli hanno l’intestazione “Città di Torino – Progetto speciale campi nomadi” e sono scritti in romeno. Il titolo è eloquente: “Dichiarazione – accordo di partenza definitiva”. Ogni abitante deve compilare gli spazi vuoti con i propri dati e il numero della baracca, e firmare. È un impegno a lasciare il campo e accettare i mille euro da ritirare presso la sede della polizia municipale di via Leoncavallo. Ciascuno deve anche chiarire in che modo intende spendere i soldi: per il ritorno in Romania, per l’affitto di una abitazione privata. “Supporto finanziario”, hanno scritto i burocrati.
«A me daranno i soldi il 23 agosto. Quando io vado a prendere i soldi, loro sgomberano la mia baracchina. Chi va il 20 agosto, lo sgomberano quel giorno. Come danno i soldi, così sgomberano».
«Una strategia, capito?» – interviene Claudia –. Perché se fai tutto in una volta può nascere un casino. Vero?».
«Se fai casino, prendi la galera».
«Non tutti hanno preso i soldi qua. Qualcuno è tornato adesso dalla Romania e ha detto che non gli danno niente. Ad altri hanno offerto quattrocento euro. A noi hanno offerto mille euro per famiglia, o baracca. Se una famiglia è di dieci persone, mille euro. Io sono sola, ho preso mille euro».
«Quello che conta è la baracca, non la persona», commenta Claudia.
«Non contano le persone».
«Io ho sette bambini, siamo nove persone, e ho preso mille euro».
«Perché non andate sotto il comune? Non avete questa voglia?», domanda Claudia.
«Noi abbiamo la voglia, però nessuno ti dà niente».
Claudia: «La polizia, il comune, loro sanno chi siete. Ma le altre persone, in città, quelli che hanno una casa, non sanno questo. Loro leggono i giornali che dicono “gli zingari, gli zingari”, però è vero che in Italia ci sono persone che possono essere a fianco a voi, ma non sanno quello che accade».
«L’Unione Europea dà tanti soldi per noi, li ha dati negli anni scorsi, ma qui nessuno ha visto un euro. Ero sul pullman, mi fermano i controllori e mi chiedono il biglietto e dicono che a noi si danno venti euro al giorno, che dobbiamo pagare il biglietto perché abbiamo venti euro al giorno. Io non ho mai visto un euro».
«E quando c’era la pandemia?», domanda ancora la mia amica.
«Nessuno del comune è venuto qua! Nessuno per aiutare. Sono arrivati solo per distruggere. Sono arrivati per sgomberare le baracchine, anche se c’era la gente dentro. Altri sono tornati e hanno trovato la baracchina spaccata».
«Loro spaccano. E noi dove andiamo? In strada».
Durante l’isolamento della primavera gli ufficiali di polizia e i referenti dell’amministrazione sono giunti per abbattere alcune abitazioni. Nella calura della sera d’estate vedo tra le baracche spazi vuoti circondati da transenne arancioni, un avviso di sequestro penzola tra piante, zanzare, un topo di passaggio. Immobile sulla mia sedia, un bicchiere in mano, non ho parole. Claudia, con gli occhi in fiamme, ha la forza di indignarsi contro l’ottusità, l’opportunismo e la noncuranza del potere urbano. Sogna nuove forme di resistenza in un’aria di rassegnazione e sospiri. Poi arriva un uomo con le braccia cariche di vecchi infissi di finestre. «Claudia, tu lo sai chi sono io? – esclama con voce da baritono – Ho fatto il Balon!». Abbiamo ricordato insieme le notti dei fuochi, quando gli straccivendoli si accampavano nel quartiere per evitare l’allontanamento voluto dall’amministrazione cittadina. Alcune donne intorno al tavolo avevano partecipato ai falò notturni con regolari turni di veglia. Intanto l’uomo frantuma il legname e s’appresta ad accendere la brace per cucinare la carne.
Il mercato degli oggetti ritrovati, il Balon degli straccivendoli, era un crocevia dove s’incontravano le marginalità urbane: rom dei campi, abitanti dell’Ex-Moi, famiglie di immigrati, disoccupati, poveri sotto sfratto, sbandati senza dimora. Alcuni di loro vendono ancora in un esilio lontano dal centro, altri sono scomparsi alla nostra percezione, ingoiati da una città governata da forze abili a garantire concessioni per gli investitori, sgomberi per i reietti. Nell’inerzia di questi mesi Claudia è uno stimolo, forse flebile, a mantenere e ricostruire legami combattivi di solidarietà. Il giorno dopo la nostra visita al campo di via Germagnano, ha scritto i suoi pensieri, le impressioni di un pomeriggio.
“Da piazza Sofia verso il campo di via Germagnano si segue tutto il fiume che ci accompagna nel percorso finché si sbuca nel parco, tagliando la statale che affianca il campo. Dopo la discesa in bici di via Germagnano ci accoglie il sub-mondo di una Torino disumana. Lì ci vivono tante famiglie che con dignità combattono per la propria esistenza. Quindici anni fa sono arrivate dopo aver subito uno sgombero dall’antico campo che già in quel periodo marginalizzava e discriminava la loro pelle, le radici della migrazione rom. Anni che sono arrivati ai giorni d’oggi.
Niente è stato fatto: neanche le promesse per fregare questa gente sono rimaste, qui non hanno mai percepito nulla dallo stato italiano. Bambini e famiglie invisibili, dove la minaccia e la certezza dello sgombero toglie tutta l’identità dei nomadi che provengono da Romania e Bosnia. Una cultura millenaria e una identità vissuta a Torino devono essere cancellate da Chiara Appendino. Persone, queste, che da più di vent’anni percepiscono un reddito grazie alla propria capacità di sopravvivenza: per loro il recupero e la vendita [di oggetti dismessi] sono l’unico mantenimento della famiglia. Il campo è il loro sostegno psicofisico, e stabilizza tutta una armonia e identità della cultura che proteggono.
Quando il Balon era in Borgo Dora tutte le famiglie del campo percepivano un piccolo reddito e oggi si trovano isolati nel mercato di via Carcano [la nuova sede del Balon dei poveri]. I racconti in questo pomeriggio con gli abitanti del campo fanno percepire che la loro vita sta per cambiare: senza campo non possono più immagazzinare i loro oggetti per provvedere al reddito. Il loro sostegno famigliare è fermo per la paura dello sgombero. Per il comune e la questura sono immigrati non desiderati, esposti a un sistema millenario torturatore e fascista fino ai tempi di oggi. Quello delle istituzioni è uno sforzo di annullamento dei poveri che in questa terra combattono senza un sostegno politico e sociale, nonostante la vita sia stata rinnegata”. (francesco migliaccio)