da: Marsactu
No, la pandemia del Coronavirus non ci rende tutti eguali davanti alla morte, e nemmeno riguardo alle condizioni di sopravvivenza durante questo periodo di confinamento. Martine Vassal, candidata a sindaco di Marsiglia, non è esattamente sulla stessa barca di mio padre, per esempio. Ecco perché mi è venuta voglia di dirle due parole.
Madame Vassal,
ho appreso dai giornali che era risultata positiva al test del Covid-19. E con lei, la sua direttrice di campagna, la deputata Valérie Boyer, il suo compagno di lista Yves Moraine e la deputata Guy Tessier. È stata messa immediatamente sotto osservazione per cinque giorni all’istituto universitario per le malattie infettive Mediterrannée, alla Timone, seguita dal professore Didier Raoult. “Sono seduta in una poltrona, leggo un buon libro, non ho nessuna assistenza respiratoria”, così sdrammatizzava per Le Monde la signora Boyer dalla sua camera di isolamento all’IHU. Poi, piuttosto pimpante, è tornata a casa con un trattamento a base di clorochina in tasca. Molto bene. Rimango però abbastanza sorpreso, considerando che secondo lo stesso Le Monde “la Francia limita l’accesso al test agli operatori sanitari e ai casi più gravi”. Ne dobbiamo dedurre che lei e i suoi compagni siete dei casi gravi?
Per quanto mi riguarda, ho dovuto rinunciare, anche prima di essere confinato, a visitare i miei genitori a causa di mal di testa, dolori muscolari, naso intasato, gola e bronchi irritati. Probabilmente un semplice raffreddore, ma in caso di dubbio non volevo correre alcun rischio. Il mio medico mi ha consigliato di rimanere a casa (poco male) e di prendere il paracetamolo: solo se la febbre fosse aumentata o se mi fossi sentito soffocare, solo in quel caso, avrei avuto diritto allo screening. Siamo consapevoli dell’assurdità di questa indicazione: devo aspettare che il mio caso peggiori per avere diritto al test e, nel peggiore dei casi, contribuire alla congestione delle unità di terapia intensiva. Sappiate che sono felice di scoprire che non tutti debbano aspettare che tali stadi critici si presentino, o stare in fila per tre-quattro ore sul marciapiede dell’IHU sfidando le regole di confinamento.
E dato che si tratta di essere pazienti, lasci che le parli di mio padre. A ottantanove anni, gravemente anemico, avrebbe dovuto sottoporsi a intervento chirurgico martedì scorso per un tumore al colon. Ma il giorno prima siamo stati avvisati che sarebbe slittato in lista d’attesa. Il chirurgo ci ha spiegato con gentilezza che preferiva non esporlo all’‘onda’ in uno stato di fragilità post-operatoria. Ho capito che si trattava anche di dover fare spazio per la cosiddetta onda. La mia intuizione si è confermata quando ho spiegato che mio padre non sarebbe potuto tornare a casa – mia madre è assente tre volte alla settimana per andare in dialisi e mio zio, mia sorella e io, confinati, non possiamo più sostituirla nelle cure da amministrargli in quei momenti. Breve silenzio imbarazzato dall’altra parte del telefono: «Capisco, cercheremo una soluzione». Cinque giorni più tardi, mio padre era ancora nel servizio chirurgia. Non sapevano dove sistemarlo “nell’attesa”.
Piccola parentesi: mio padre è ricoverato in un ospedale situato alle porte di Marsiglia, per la precisione a Penne-sur-Huveaune. In perenne costruzione, questo ospedale privato sta inghiottendo i giardini e le ville circostanti per allargarsi man mano che progredisce il deperimento dell’ospedale pubblico di Aubagne. Perché si tratta proprio di deperimento. Tanto che l’Agenzia Sanitaria Regionale ha proposto di chiudere la sua unità di rianimazione nel 2020 e deviare i flussi verso l’ospedale privato, nonostante questo servizio fosse stato appena rinnovato a costi elevati. Il progetto è stato abbandonato in seguito alle proteste congiunte di operatori sanitari, utenti e di alcuni funzionari. Alla luce dell’attuale crisi, non è esagerato affermare che questi resistenti hanno svolto un servizio di salute pubblica.
La nostra principale angoscia ora è che mio padre stia lentamente morendo lontano dalla sua famiglia. Disidratato, anemico, con il rischio concreto di ostruzione intestinale, ha difficoltà a capire cosa gli sta succedendo. Ogni volta che lo chiamiamo al telefono, dobbiamo spiegargli perché non gli facciamo più visita. Il tempo, per lui, è diventato un paesaggio nebbioso attraversato solo dall’andirivieni di assistenti infermieristici. «È dura da vivere… Mi mancate», mi ha confessato ieri.
Io e mia sorella (più mia figlia) siamo confinati ciascuno alle due estremità della città. Mia madre esce di casa solo per andare in dialisi a cinquanta metri dal suo uomo. Senza riuscire a vederlo però. Inizialmente il team medico ha pensato di metterlo temporaneamente in riabilitazione, ma il capo del servizio ha messo il veto: l’intero piano è in fase di riqualificazione in previsione del picco dell’epidemia. Un istituto privato della zona, classificato come residenza per anziani, dove mio padre aveva già trascorso tre mesi dopo un ictus, alla fine ha accettato di riceverlo. Verrà trasferito lì domani con la speranza che possa ritrovarci delle presenze familiari. Ma la preoccupazione rimane: questa residenza, specializzata in riabilitazione e convalescenza, ha i mezzi per gestire questo periodo di stand-by pre-operatorio?
Non posso fare a meno di pensare alle situazioni estreme che stanno vivendo l’Italia e la Spagna: dover smistare i malati, sacrificare i più anziani per lasciare i letti disponibili ai più vigorosi, che hanno più possibilità di sopravvivenza. Al di là della fatalità del virus, i popoli dei nostri tre paesi non mancheranno di ricostruire il collegamento tra la carenza di mascherine, tamponi, letti, apparecchiature respiratorie – è in gran parte questa carenza che ha reso inevitabile il confinamento di massa – e la superficialità con cui i governi hanno ignorato i campanelli d’allarme del personale ospedaliero.
E così, cara Madame, lei e suoi amici deputati, che a ogni legislatura avete votato senza esitare il “rigore di bilancio” che ha messo in ginocchio il sistema sanitario pubblico – e di cui alcuni hanno approfittato per fare profitti nella sanità privata (Renaud Muselier et Dominique Tian stanno bene? Metterano le loro belle cliniche a disposizione dello sforzo di guerra?) –, ecco che proprio lei, nel momento più critico, corre a rifugiarsi tra le mani esperte dell’ospedale pubblico, tagliando la strada (en passant) ai comuni mortali. Non le sembra di essere un po’ troppo sfacciata?
Mi dirà che i nostri dirigenti devono essere sani e forti per affrontare la crisi sanitaria. È vero. Torni vigorosamente a fregarsene delle famiglie evacuate e stipate nelle camere d’albergo; a lasciare per strada dozzine di minorenni isolati (in quanto presidente del Dipartimento, è sua responsabilità); a rinviare la lotta contro le cattive condizioni abitative (in quanto presidente della Città metropolitana, questa è anche una sua responsabilità) – le ricordo che centomila marsigliesi si ritrovano oggi confinati in alloggi angusti, insalubri o addirittura pericolosi. Con la pandemia, il ritardo accumulato nella gestione di queste emergenze sociali rischia di avere conseguenze drammatiche. E mentre il virus ha viaggiato rapidamente grazie all’ipermobilità della “globalizzazione felice”, le vittime alla fine saranno soprattutto le popolazioni più vulnerabili. Grazie a chi?
Io e lei lo sappiamo molto bene: non imparerà nulla di nuovo dalla catastrofe in atto, che tuttavia la rimanda alla profonda miseria morale delle sue scelte. Per lei è solo una questione di sopravvivenza politica. Confinata nella sua arroganza, non farà alcun mea culpa una volta che la crisi sarà finita. Al contrario, sarà tentata […] di approfittare dello stato di shock e di esaurimento della popolazione per accelerare i processi di espropriazione in corso. […] Non ho ancora finito. I miei genitori sono stati dirottati verso l’ospedale privato senza che nessuno chiedesse la loro approvazione, tuttavia con la benedizione della previdenza sociale. All’inizio si sono lamentati un po’, affezionati come sono al servizio pubblico. Poi si sono abituati. Anche nel settore privato ci sono operatori sanitari competenti e umani. Ma i modi sono diversi: un giorno che mia madre doveva fare un breve ricovero a seguito della seduta di dialisi in ospedale, capitò che, mentre si spostava con fatica da un servizio all’altro, una signora che brandiva una fattura si mise a inseguirla per i corridoi. «Come se fossi stata una ladra! – mi raccontò più tardi – Pensavano che sarei andata via senza pagare…».
Cosa possiamo farci? L’ospedale pubblico sta morendo. L’ultima volta che mio padre è stato portato in quello di Aubagne, l’ho trovato al pronto soccorso su una barella abbandonata in una stanza che sembrava più uno sgabuzzino che una sala d’attesa. Non era colpa del personale, ma della mancanza di personale. E quindi di volontà politica. E allora di che ci lamentiamo? Via libera verso il privato. Fino alla prossima crisi sanitaria.
Per tutti questi motivi, Madame Vassal, le auguro una pronta guarigione e “allo stesso tempo” una bella ricaduta elettorale al secondo turno delle elezioni municipali. Del resto, sempre più persone si convincono che le battaglie decisive per fermare le vostre politiche mortifere non si combattono nelle istituzioni, ma per strada, nei nostri quartieri, a partire dalla solidarietà concreta e dalle nostre libere associazioni – tutto ciò a cui Macron e i vostri hanno dichiarato guerra. Sia certa che quando usciremo da questo brutto film di fantascienza, saremo felici più che mai di ritrovarci all’aria aperta per celebrare il nostro ritorno alla vita. Ma saremo anche arrabbiati. Non dimenticheremo. Salute! (bruno le dantec / traduzione di floriane bolazzi)
Aggiornamento: il padre di Bruno è spirato ieri, nelle ultime ore di una notte di luna pienissima.
1 Comment