Da Repubblica Napoli, 8 settembre 2011
Chiara Ingrosso, napoletana, giovane ricercatrice in storia dell’architettura, ha scritto un libro – Barcellona 2011. Storie urbane, Clean edizioni – in cui delinea le trasformazioni in corso in quattro quartieri della capitale catalana – Barceloneta, Poblenou, La Mina e Bon Pastor –, luoghi meno noti al turista o al visitatore occasionale ma rilevanti per la storia della città e per le questioni importanti che la loro metamorfosi sta sollevando. L’indagine si avvale di numerose fotografie (di Mario Spada), che mostrano gli spazi pubblici e le architetture analizzate nel testo, e di interviste ai protagonisti, dai tecnici incaricati di attuare le riforme ai rappresentanti dei comitati di quartiere, mettendo in luce una diversità di vedute che raramente trova spazio nell’elogio che si usa fare comunemente del “modello Barcellona”.
Ma perché mai una ricercatrice napoletana decide di mettersi a studiare le trasformazioni urbanistiche di Barcellona invece di indagare sulla città in cui vive? Intanto, perché la sua città, dal punto di vista che qui interessa, è un luogo immobile. Ne uscirebbe al massimo un saggio sui palazzi crollati nei Quartieri Spagnoli o sulle voragini che si aprono in periferia, o ancora un’analisi degli escamotage architettonici per evitare ai bagnanti il contatto con le spiagge inquinate di Bagnoli. Per il resto, delle grandi riqualificazioni annunciate, dal centro storico alla zona occidentale fino a quella orientale, ma anche in ambiti ridotti come piazza Garibaldi o piazza Municipio, si discute da anni se non da decenni, a volte con un accanimento che lascerebbe supporre un intervento imminente, eppure nulla di significativo accade, lasciando la sensazione di partecipare a un’interminabile simulazione.
È naturale allora che una città come Barcellona, che negli anni del nostro immobilismo è stata rivoltata come un guanto dai suoi amministratori, con la collaborazione di architetti e urbanisti, susciti la curiosità di alcuni, l’ammirazione incondizionata e lo spirito di emulazione di altri. E non è un caso che il Forum universale delle culture, che ospiteremo tra meno di due anni, sia proprio un’invenzione di Barcellona, un grande fuoco d’artificio messo a punto dai catalani nel 2004 per completare il rinnovamento della linea di costa avviato con le Olimpiadi del ‘92.
Napoli ha appaltato da Barcellona il pacchetto del grande evento, ma la prospettiva della trasformazione urbanistica, inevitabilmente affidata alle nostre risorse, è tramontata prima di nascere. Nella prima presentazione del Forum, più di tre anni fa al teatro Mercadante, venivano indicate come sedi la mostra d’Oltremare, il Collegio Ciano a Bagnoli – una volta dismesse le strutture Nato –, e l’area dell’ex acciaieria dopo la bonifica. Poi il tempo è trascorso, lo scenario della mostra è venuto meno, e quel che resta è la vaga indicazione di Bagnoli; delle riforme da fare nessuno parla più, o meglio tutti ne parlano ben sapendo che non ci sono i soldi per farle; l’attenzione generale si concentra sul salvataggio della parte spettacolare della kermesse – peraltro superflua senza il rinnovamento urbanistico.
Negli anni della nostra inerzia Barcellona affrontava e risolveva in concreto tutti quei dilemmi sui quali qui ci si continua a dividere, ma sempre rigorosamente sul piano teorico: i limiti dell’intervento pubblico e di quello privato, le regole di partecipazione degli abitanti, il rapporto tra centro e periferia, il destino di ciò che resta del passato industriale, il ruolo dei nuovi cittadini immigrati, e così via. L’esito di tale ambizioso processo – tuttora in corso – è da un lato una città confortevole e stimolante per tanti che ci vivono, e per milioni di turisti che la visitano ogni anno, dall’altro il laboratorio di politiche aggressive verso determinate categorie di abitanti – gli anziani per esempio – meno disponibili ad adattarsi e quindi meno presentabili sul palcoscenico globale in cui Barcellona è ormai obbligata a rappresentare un copione scintillante.
Il libro di Chiara Ingrosso ci mette in guardia, lasciando intendere che cambiare volto a una vecchia città mediterranea non è un’operazione indolore, specie per i suoi abitanti meno garantiti; che la “rigenerazione” urbana basata sul marketing e sui grandi eventi, sulla cultura come apripista del turismo di massa, comporta una lunga lista di controindicazioni, spesso dolorose e in certi casi evitabili. Nel libro, le voci di molti intervistati seminano dubbi sulle soluzioni adottate, adombrano errori e forzature anche gravi. Se mai fossimo anche da noi alla vigilia di un nuovo corso, ci sarebbe da invitare politici e tecnici a studiare bene i lati oscuri di questo modello, nonostante sia quello che trionfa oggi in Europa e nel mondo.
Nel frattempo c’è qualcosa che i giovani ricercatori napoletani – sottraendo alla parola ricercatore ogni connotato accademico, ché l’università appare latente sotto questo profilo – potrebbero e anzi dovrebbero cominciare a fare, senza bisogno di cercare lontano il loro tema di indagine e magari cavalcando questa ventata di ottimismo amministrativo. Questo qualcosa sarebbe mettere in cantiere una lunga serie di inchieste sulla propria città; inchieste itineranti, basate sulla narrazione e sull’ascolto, a partire da semplici quesiti: chi sono, da dove vengono, come vivono e cosa pensano di ciò che riguarda la loro vita quotidiana gli abitanti della nostra città. Allo stesso modo fecero i giovani Emilio Luongo e Antonio Oliva cinquanta anni or sono, girando in lungo e in largo per scrivere il loro libro fondamentale: “Napoli come è”. Erano gli anni Cinquanta. Nel frattempo il corpo della metropoli è cresciuto, e così la sua complessità. Di inchieste del genere ce ne vorrebbero a decine: strumento di consultazione ben più capillare di un’assemblea popolare e inestimabile base di conoscenze da porre a fondamento per i futuri interventi sul tessuto della città. A patto che, una volta o l’altra, qualcosa cominci a cambiare anche qui. (luca rossomando)