Dal punto di vista letterario, Napoli negli ultimi anni è stata indagata da una molteplicità di sguardi, con particolare riferimento alla dimensione antropologica della sua struttura sociale e al fenomeno criminale. L’attenzione all’intreccio tra politica, affari e camorra – che ha interessato la città dagli anni Cinquanta ai nostri giorni – la dobbiamo invece, oltre che a opere cinematografiche di notevole rigore espressivo come Mani sulla città, soprattutto a studi di carattere sociologico e storico – come quelli che da anni conduce Isaia Sales – che ci hanno segnalato quanto sia stato determinante il legame con il potere politico nella crescita del fenomeno mafioso nel nostro Mezzogiorno.
È da questa angolazione che abbiamo letto con piacere La Malanotte (edito da Colonnese), romanzo d’esordio di Giuseppe Pesce, in cui, pur all’interno della finzione letteraria, appare chiaro come il degrado civile della città e il controllo del territorio da parte della criminalità siano cresciuti nel corso dei decenni di pari passo con la degenerazione della politica.
Questo sembra il nodo di fondo sotteso al racconto dell’autore, che già nel titolo (che in qualche modo rinvia a Malacqua di Nicola Pugliese) sembra alludere a quel cupo orizzonte che da anni la città stenta a lasciarsi alle spalle. È in questo tempo buio e imprecisato – ma qualche traccia ci induce a pensare che la storia si svolga intorno agli anni di Tangentopoli – che Matteo Ricci, ligio funzionario di stato, viene inviato a Napoli dal ministero per indagare sulla correttezza dell’attività amministrativa del Comune. Giunto in città, quasi subito si accorge di essere circondato da uomini corrotti, da personaggi spregevoli come il maresciallo Fusco, che aveva appena intascato una mazzetta da un certo Antonio Iazzetta che “aspettava da un anno una licenza per un negozio di frutta e verdura”. E scopre che la corruzione raggiunge i vertici stessi dell’amministrazione – consiglieri, assessori, lo stesso sindaco – quando, per puro caso, trova delle lettere anonime, di cui ben dieci riguardano il primo cittadino.
Nella narrazione di Pesce, a colpire è il ritratto psicologico di questo ispettore che attraversa come un fantasma una città stremata, oltraggiata da violenza criminale, clientelismo, disoccupazione, precarietà. E non si fa fatica a comprendere che questa decadenza sia il frutto di una distruzione sistematica del suo tessuto economico e produttivo in cui determinanti sono stati l’inerzia dello stato e una politica di rapina delle risorse locali. In tal senso, l’autore fa bene – anche se talvolta la scrittura rischia di perdere la sua forza inventiva quando lo sguardo si allarga a temi molto diversi tra loro – a citare esempi eclatanti della condizione di crisi della città, a partire dal dramma dei cassintegrati e dei disoccupati, fino ai processi di deindustrializzazione come quello di Bagnoli, che hanno regalato alla criminalità organizzata il controllo pressoché totale del territorio metropolitano.
Ricci è deciso a resistere al malaffare e a denunciarlo, e continuamente interroga la sua coscienza di servitore dello stato; ma entra in un conflitto esistenziale profondo quando si vede solo e senza vie d’uscita. E allora si lascia andare, si perde nei suoi pensieri ed è travolto dalla depressione e da eventi che mettono in discussione la sua stessa esistenza. Pagina dopo pagina, attraverso una scrittura agile e rapsodica, la narrazione finisce per assumere le caratteristiche tipiche del noir metropolitano dove il paesaggio urbano diventa protagonista della costruzione letteraria.
Quando Ricci si recherà dal magistrato, il Giudice Solitario, a denunciare il malaffare, tutto per lui sarà più difficile; il mondo che lo circonda diventerà ancora più opaco e indecifrabile, anche se in questo uomo probo – che ha già combattuto a viso aperto la camorra “istituendo un maxiprocesso che collegava tutte le inchieste avviate in un quadro organico strutturato a ragnatela” – troverà un prezioso alleato. La sua denuncia porterà alla decapitazione del consiglio comunale in carica e allo scioglimento dell’amministrazione. E qui molte cose fanno pensare a Napoli non più come un’anomalia nazionale, ma come specchio di una più generale dissoluzione che investe l’intera classe dirigente del paese. La Napoli di Malanotte, insomma, non è altro che l’Italia colta nella fase del suo più acuto disfacimento morale. (antonio grieco)
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