da Napoli Monitor n° 49, Giugno 2012
Non è facile trovare in giro libri, documentari, reportage, insomma qualsiasi cosa che parli della musica neomelodica in maniera originale, andando oltre i luoghi comuni, la ritrattistica da macchietta o la ormai inascoltabile e noiosa denuncia sulla “musica della mala”. All’interno della letteratura in materia, poi, va distinto chi opera con malizia, cavalcando un’onda che dal dopo Gomorraha ricominciato (nonostante Fofi e Vacalebre) ad andare in un’unica direzione, e chi invece, pur se armato di buona volontà, finisce per inciampare, anche solo di tanto in tanto, nei peccati originali di cui sopra.
Il libro di Luigi Romolo Carrino ed Ettore Petraroli, A Neopoli nisciuno è neo (Laterza, 2012), appartiene senza dubbio a questa seconda categoria. Gli autori stanno dalla parte giusta, nel senso che non stanno dalla parte di nessuno. Nonostante, infatti, trapeli un’approfondita conoscenza della materia (e diciamolo, un certo favore), il libro non giudica, ma per la maggior parte racconta, analizzando talvolta, ma lasciando parlare le storie, senza intraprendere le tortuose e già percorse strade dell’“analisi sociologica del fenomeno” che anzi viene in un paio di incisi impietosamente demolita.
Proprio i pochi passaggi del libro, d’altronde, in cui la voce narrante non riesce a fare a meno di percorrere questa stessa strada, risultano i più deboli, come nel caso dei due capitoli finali, in cui la mancanza dei fatti, delle descrizioni, dei racconti, si fa sentire a scapito di una certa leggerezza che appartiene al resto del libro. In ogni caso, va sottolineata l’oggettività e il buon senso con cui viene raccontato il rapporto tra i cantanti e la camorra: il sistema delle agenzie che fanno il bello e il cattivo tempo; i cantanti che si ritrovano “in mezzo”, e la cui autonomia artistica (scelta delle canzoni da cantare compresa) è quasi sempre compromessa; il racconto dei passaggi radio-televisivi a pagamento, con tanto di cifre dettagliate, e così via.
Il libro insomma si avvale di un’indagine sul campo, e per questo può permettersi di lasciare spazio alle vite dei vari faccendieri, impresari, cantanti, che proprio come i colleghi nazionali si salutano con calore e si abbracciano se si incontrano a un matrimonio, salvo poi parlare malissimo l’uno dell’altro appena girate le spalle. Carrino, d’altronde, aveva mostrato già con il suo primo romanzo, Acquastorta, di avere una certa dimestichezza con l’argomento, e anche la cornice narrativa (anzi soprattutto quella), è più vera che mai: si tratta infatti del matrimonio di Ida Rendano, una delle cantanti neomelodiche più celebri in città, raccontato dal sagrato della chiesa fino al saluto dell’ultimo invitato al momento dei festeggiamenti.
Non manca tuttavia qualche eccesso di folklore e di autocompiacimento partenopeo, ma soprattuto il libro finisce per perdere parecchio rispetto a quella che potrebbe essere la sua forza, per due fattori. In primo luogo la scrittura, a tratti un po’ ingenua, forzatamente sciolta e informale, che invece di risultare un valore aggiunto indebolisce la narrazione. La seconda è l’uso di frasi ed espressioni dialettali, spesso non necessarie, in quanto non servono a caratterizzare un personaggio o un contesto, o a spiegare qualcosa che difficilmente si potrebbe esprimere in lingua italiana. Questo utilizzo così disinvolto non infastidisce la lettura ma rischia di provincializzare il libro, che appare nella collana “Contromano” di Laterza ed è concepito e scritto per un pubblico nazionale. (riccardo rosa)