Da Repubblica Napoli del 28 febbraio
Dieci giorni fa è passato quasi inosservato il suicidio di Giuseppe De Crescenzo, quarantatreenne operaio della Fiat di Pomigliano d’Arco, distaccato da alcuni anni nel cosiddetto “polo logistico” di Nola, il reparto in cui l’azienda ha relegato fin dal 2010 più di trecento operai con ridotte capacità lavorative, usurati dal lavoro in fabbrica, e quasi tutti gli appartenenti al sindacato Slai Cobas, i più refrattari ad accettare le condizioni usuranti di tale lavoro. De Crescenzo, che lascia moglie e due figli, era un militante dello Slai Cobas.
Dopo il controverso referendum del giugno 2010 e poi l’avvio della produzione della Panda nel 2012, l’attenzione dei media sulla più grande fabbrica della regione è andata scemando. I riflettori si accendono a intermittenza, in occasione di qualche annuncio del management Fiat o delle sentenze dei tribunali chiamati a esprimersi sull’esclusione degli iscritti Fiom dalle turnazioni lavorative. Le condizioni di lavoro e la vita quotidiana nello stabilimento, ma soprattutto il futuro incerto dei quasi cinquemila addetti, e dei circa quindicimila dell’indotto, sono tornati in un cono d’ombra da cui trapelano poche frammentarie informazioni.
Chi è tornato in fabbrica dopo un lungo periodo di cassa integrazione – la crisi è cominciata negli ultimi mesi del 2008 – si ritrova in un ambiente molto diverso da quello che aveva lasciato, sia dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro che dei rapporti tra gli operai, e tra questi e i loro superiori. Prima dell’accordo del 2010, le due pause previste in ogni turno duravano venti minuti ciascuna. La mensa era fissata a metà turno, con orari sfalsati da reparto a reparto: una mezzora piena per riposarsi, nutrirsi e scambiare due chiacchiere con i colleghi. I pezzi da montare arrivavano sulla catena ogni due minuti, con una saturazione massima del settanta per cento. Questo vuol dire che per ogni sessanta secondi di lavoro ce n’erano quindici in cui si poteva compiere un movimento, stirarsi o semplicemente asciugarsi il sudore. Con questi ritmi si producevano fino a 340 vetture a turno. Automobili come la 147 e la 159 in tutte le versioni, considerate ad alto valore aggiunto per unità di prodotto, dotate di accessori sofisticati. Adesso, nell’unico capannone rimasto attivo, si produce la Panda. Ci sono linee che arrivano fino a 400 vetture a turno, con una cadenza sulla catena di montaggio che si aggira intorno al minuto e una saturazione che può raggiungere il cento per cento. Con l’introduzione del sistema Ergo-Uas, in teoria l’operaio viene messo nella posizione più comoda per operare e con tutti i pezzi a portata di mano. Per questo l’azienda richiede che ogni singolo secondo passato sulla catena venga dedicato alla produzione.
In uno stabilimento del genere, organizzato per raggiungere il massimo dell’intensità di lavoro, le pause sono state ridotte di dieci minuti l’una, mentre la mensa è stata spostata a fine turno, azzerando di fatto uno dei momenti privilegiati per il formarsi della comunità operaia, che in un posto come Pomigliano, pur nell’eterogeneità di orientamenti e di provenienze geografiche, si costituiva nei momenti di libero confronto ai margini della produzione. A fine turno, adesso, molti preferiscono tornare a casa invece che trattenersi a mensa, e così quando i colleghi del turno successivo arrivano ai cancelli, quelli che li hanno preceduti si trovano già sulla via del ritorno.
Inutile aggiungere che a una stretta così decisa in termini di organizzazione del lavoro ha fatto riscontro un’esasperazione del controllo e della sottoposizione gerarchica. Il clima di generale insicurezza – lo stesso in cui si è svolto il referendum del 2010 – ha reso più facile la compressione dei diritti. L’insofferenza, nonostante tutto, oltrepassa i muri dello stabilimento. Al riparo dell’anonimato, tante voci raccontano di infortuni, pressioni, ritmi insostenibili. Finché il disagio, puntualmente, non si manifesta con gesti eclatanti, estremi.
Il sottofondo degli eventi che hanno scosso Pomigliano in questi anni è però ancora più preoccupante. In pochi lo dicono apertamente, ma è evidente che una tale strategia rischia di condurre alla chiusura definitiva. La suddivisione dei lavoratori in tre fasce lascia intravedere dove avverranno i prossimi ridimensionamenti. Per produrre la Panda bastano, infatti, i circa 2300 operai di fascia A che lavorano attualmente in FCA. Di questi, peraltro, nessuno è iscritto alla Fiom. L’indotto, a sua volta, è stato fortemente colpito. La scelta di produrre una vettura di successo ma di basso valore aggiunto, che non necessita le lavorazioni complesse della 147 o della 159, ha portato alla chiusura di diversi stabilimenti in provincia. Ma soprattutto, dopo la Panda, che terminerà tra non molto il proprio ciclo fisiologico, non appare all’orizzonte alcuna missione produttiva. Per i trecento di Nola la cassa integrazione scadrà il prossimo luglio. Il 31 marzo scade quella per gli addetti dello stabilimento di Pomigliano. (luca rossomando)