«Scusate, una domanda. Voi venite ad aiutare a queste persone, va bene. Però, volevo dire, a noi lavoratori italiani, perché non ci tutela nessuno?». L’attivista dell’associazione antirazzista risponde con un piglio di esasperazione. È una domanda che gli è stata posta innumerevoli volte, spesso l’unica che viene fatta ai manifestanti che denunciano lo sfruttamento dei lavoratori immigrati. La risposta infatti è secca: «Non siamo qui per tutelare nessuno, stiamo dando sostegno a una lotta che i fratelli bengalesi hanno cominciato da soli. Se gli italiani si unissero con loro a fronteggiare problematiche comuni, forse le divisioni smetterebbero di indebolirci».
La forza lavoro delle imprese tessili di Sant’Antimo è costituita da cittadini del Bangladesh, spesso gli stessi che qualche anno prima lavoravano in quelle fabbriche tessili del subcontinente indiano, aziende da cui ci giungono voci di un quotidiano sfruttamento del lavoro e dove il mancato rispetto delle più elementari misure di sicurezza si è tradotto più volte in tragedia. La situazione, alle porte di Napoli, cambia poco. Un lavoratore, in queste imprese regolarmente registrate, a Sant’Antimo così come in altri comuni della provincia, cuce dalle dieci alle quattordici ore al giorno, sette giorni a settimana. La paga va dai tre ai quattro euro all’ora e alla fine del mese, spesso, in modo perlopiù arbitrario, lo stipendio non viene pagato interamente. In media, uno di questi lavoratori riceve tre-quattrocento euro mensili.
Domenica le persone scese in piazza per un’assemblea hanno dovuto scioperare per essere presenti. Le proteste hanno avuto inizio individualmente, dopo che a un gruppo di lavoratori sono stati sequestrati i documenti d’identità dai gestori delle aziende, e dopo un anno di stipendio non percepito. I gestori, essi stessi di nazionalità Bangla, hanno fatto muro contro muro, ignorando le rimostranze dei lavoratori. Questi ultimi, da due settimane circa, hanno cominciato a coordinarsi con l’associazione 3 febbraio, che è già stata presente durante un’altra protesta, quando a via Sambuci, sempre a Sant’Antimo, nel 2010 fu prima tagliata l’acqua e poi data un’ordinanza di sfratto a settanta immigrati presenti in un grande casolare nel centro della città. Pochi giorni fa, alla prima assemblea tenutasi per contare le forze e organizzare questa nuova protesta, erano presenti un centinaio di lavoratori. I caporali hanno perso il sangue freddo e hanno provato a riprendere il coltello dalla parte del manico, cercando di trattare la restituzione degli stipendi con i singoli lavoratori. Halemul (utilizzo qui un nome di comodo) è stato invitato a casa di uno dei caporali per la restituzione degli arretrati, ma al suo arrivo è stato picchiato da cinque persone. Anche uno degli organizzatori bengalesi ha comunicato ieri di aver ricevuto delle minacce.
L’isolamento nel quale vivono le diverse comunità straniere della zona aumenta la pressione alla quale vengono sottoposti gli scioperanti. Ciò nonostante, nella piazza centrale del paese si raggruppano intorno ai cinquanta bengalesi, più una decina di migranti del Burkina Faso e della Costa d’Avorio. L’assemblea viene fatta all’aperto perché la sede in cui era inizialmente prevista è stata occupata da un altro gruppo di bengalesi, che fa capo invece ai caporali e cerca di screditare la protesta. Si decide per un corteo che attraversi Sant’Antimo il 23 marzo.
L’associazione che segue la vicenda sta provvedendo a effettuare una vertenza di mora per i pagamenti arretrati, ma secondo l’avvocato che se ne sta occupando ci sarebbero anche gli estremi di una denuncia per schiavismo. Le aziende, come già detto, sono regolarmente registrate, le prove facilmente individuabili, ma nessun controllo è stato applicato, ciò che manifesta una massiccia dose di indifferenza o, ancora peggio, di connivenza. È difficile immaginare che questo tipo di dinamiche non si applichino a un tessuto criminale ben più ampio, dato anche il fatto che, come sempre accade, a una condizione di sfruttamento dei lavoratori corrisponde un considerevole giro d’affari. (umberto piscopo)
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