Sarà proiettato venerdì 7 aprile alle 20,30 al cinema Astra (via Mezzocannone, 109), nell’ambito della rassegna Astradoc, il film I am not your negro, di Raoul Peck, che abbiamo visto al Copenhagen International Film Festival.
I am not your negro, io non sono il tuo nero, suona come una difesa ma è un atto d’accusa. In questa asserzione, pronunciata con la calma e la decisione di chi sa di esprimere insieme un’evidenza e una condizione da conquistare, è racchiusa la traiettoria esistenziale di James Arthur Baldwin, intellettuale afro-americano imprescindibile nella storia delle lotte per i diritti civili negli Stati Uniti della seconda metà del secolo scorso, e oggi più attuale che mai. Il regista Raoul Peck ha intitolato così il suo documentario, insieme saggio visivo, pellicola biografica e riflessione sulle odierne race relation in America. Peck non è nuovo a un cinema che ingaggi storia, politica ed estetica per dire qualcosa di necessario. Nato ad Haiti, giovinezza passata in Congo e studi negli Stati Uniti e in Francia, consegue una laurea in cinema nel 1988 a Berlino. Nel 2000, il film Lumumba, incentrato sulle conseguenze dell’indipendenza del Congo dal Belgio negli anni Sessanta, e in particolare sul primo ministro Patrice Lumumba, è stato il suo primo successo internazionale. Da poco uscito nelle sale, è il suo secondo film di finzione, The young Karl Marx, una pellicola biografica sugli anni di gioventù del filosofo di Treviri, sulla sua amicizia con Friederich Engels e sul lavoro congiunto che portò al Manifesto Comunista. È però con I am not your negro che Peck ha incendiato il presente più di tutti i suoi altri film, con una freccia scoccata direttamente dal passato irrisolto degli USA.
James Baldwin è morto trenta anni fa, ma il film parla dell’America di oggi pur senza indugiarvi, semplicemente le idee di Baldwin fanno capire le radici, e la persistenza, di Ferguson, di Harlem, di Oakland, dei neri ammazzati dai poliziotti bianchi, del movimento Black Lives Matter, più di qualsiasi cosa sia stata detta in anni recenti sulla questione delle razze, sul suprematismo bianco e sulla resistenza a esso.
“La storia del nero in America, è la storia dell’America. E non è una bella storia”, ha scritto Baldwin. Per raccontare un pezzo importante di questa storia, Peck ci introduce nel mondo pubblico e intimo di Baldwin attraverso i suoi scritti, le apparizioni televisive, i convegni e gli interventi, intrecciati alle immagini di momenti iconici nella storia delle relazioni tra bianchi e neri, e agli eventi del presente che hanno riportato la questione del razzismo strutturale e quotidiano al centro del dibattito. Il film è narrato dalla voice off di Samuel L. Jackson, che trae il suo eloquio interamente dai libri e dalle lettere di Baldwin, in particolare dal manoscritto a cui ha lavorato per anni e mai completato, Remember this house, sulle vite di Martin Luther King jr, Malcom X e Medgar Evers, suoi amici e alleati che vide morire ammazzati uno dopo l’altro con la certezza di essere il prossimo. Un’altra fonte è il libro The devil finds work, meditazione sulla razza, Hollywood e la mitologia dell’innocenza bianca: l’immagine edulcorata e purificata di loro stessi in cui vivono i bianchi americani. Spezzoni da decine di film holliwoodiani tra gli anni Cinquanta e Settanta ci restituiscono il nero che la fabbrica dei sogni americana voleva: educato, che stava al suo posto, sempre decentrato. Se il nero intendeva integrarsi doveva comportarsi come ci si aspettava da lui, e il suo successo poteva essere tollerato nella misura in cui si conformava a questa narrativa e faceva divertire i bianchi. Una macchina potente di produzione dell’immaginario collettivo e di conseguenza generatrice del carattere e delle personalità, che Baldwin smascherava con stile e intelligenza.
Il tessuto connettivo della saggistica e dei romanzi di Baldwin è una rivisitazione della cultura popolare americana e dell’inerente razzismo che l’attraversa. L’America bianca ha costruito un’immagine di sé lontana dalla realtà, come uno specchio in cui potersi riflettere. E così ha reso invisibile a sé stessa la violenza su cui è stata costruita e che conferma la sua esistenza ogni giorno. Quella violenza che un bianco potrebbe non incontrare mai nella sua vita, precisamente un effetto di quel white privilege di cui è intriso ma che non vede, come un pesce nell’acqua. Baldwin puntava direttamente al cuore di questo meccanismo psicologico collettivo. Aveva previsto che la questione razziale sarebbe stata irrisolvibile senza un’esame critico della storia e senza l’accettazione, per quanto dolorosa, della verità. Scrivendo “il popolo di questo paese dovrebbe domandarsi innanzitutto perchè è stato necessario avere i neri”, aveva posto la questione con una chiarezza senza pari. Dava voce alla frustrazione e alla rabbia che qualsiasi nero che si confrontasse con la sua condizione sentiva distintamente, articolando un orgoglio ferito che non era di razza ma semplicemente umano.
Nei suoi interventi, manteneva una posizione a metà strada tra l’approccio muscolare di Malcom X e la filosofia non violenta di King, senza mai concedere nulla all’autocompiacimento bianco. Adoperava una retorica lucidissima, chiara e diretta, e uno stile alle volte ironico e altre abrasivo, ma sempre accessibile per chiunque volesse ascoltarlo. Non condivideva l’odio anti-bianco. Persino l’FBI lo considerò per qualche tempo come una carta da giocare nei conflitti razziali di quegli anni in quanto nero moderato. Ma solo perchè la critica che Baldwin muoveva al paese era sottile, mirava la cuore dell’identità e dell’autopercezione sia dei bianchi che dei neri, per quanto non mancasse di schiettezza. Baldwin era profondamene attaccato all’America, alle relazioni che conservava nel paese che lo aveva visto nascere e reso quel che era.
Nato povero ad Harlem nel 1924, scoprì presto di essere gay. Riuscì a completare gli studi ed emigrò giovane in Francia. Ritornò in America nel 1957, quando il Congresso stava discutendo la nuova legge sui diritti civili. Fu colpito dalla storia di Dorothy Counts, una quindicenne di Charlotte, North Carolina, che insieme ad altri tre afro-americani aveva richiesto l’iscrizione nel liceo Harding, una scuola per bianchi formalmente aperta a tutti da una legge dello stato. Mentre Dorothy andava a scuola il suo primo giorno, una folla di residenti bianchi la molestò pesantemente, mentre le madri invitavano i propri ragazzi a sputarle addosso. La famiglia di Dorothy resistette per quattro giorni, prima di ritirare la ragazzina dalla scuola, per paura che gli sputi si trasformassero in aperta violenza. Baldwin decise di visitare quei luoghi, il sud apertamente razzista dove si stava lottando per quei diritti di cittadinanza pomposamente iscritti nella dichiarazione d’indipendenza ma che erano stati goduti dai bianchi sulle spalle di milioni di schiavi, e da cui s’irradiavano le battaglie per i diritti civili degli afro-americani. Conobbe Martin Luther King jr, parlò con i leader e gli attivisti neri, tenne conferenze e scrisse lunghi reportage. In seguito, partecipò alla marcia per i diritti civili di Washington il 28 agosto del 1963, insieme agli amici di lunga data Henri Belafonte, Sidney Poiter e Marlon Brando. Ed era presente alla famosa marcia del 1965 da Selma a Montgomery in Alabama.
Il film di Peck attraversa questi momenti della vita di Baldwin con un ritmo che brucia come miccia di dinamite. Alla fine della visione si è edotti sulla questione delle razze come se avessimo assistito a un intenso seminario di psicologia, studi culturali e storia politica contemporanea, senza però aver sorbito l’affettazione del professore, e piuttosto avendo beneficiato dell’arguzia dell’intellettuale militante. È il tempo presente che ci impone film del genere. E il cinema sembra aver capito che la necessità di affrontare questioni irrisolte non è più differibile. Ci sono almeno altri tre film recenti che idealmente potrebbero accompagnarsi al film di Raoul Peck. Moonlight di Barry Jenkins, vincitore dell’Oscar come miglior film, basato sul romanzo semi-autobiografico di Tarrel Alvin McCraney, che racconta in tre atti i momenti di crescita di un ragazzino nero dall’infanzia all’età adulta nel suo confronto con la propria sessualità e la società che lo abusa emotivamente e fisicamente. E poi 13th, potentissimo documentario di Ava DuVernay che esplora la dimensione fattuale delle discriminazioni, raccontando la progressione dei neri americani da schiavi a lavoratori forzati, fino alle incarcerazioni di massa nelle prigioni private del presente. Infine, We come as friends di Hubert Sauper, che pur non parlando direttamente né di razzismo né di America, ci dimostra attraverso la storia recente del neonato stato del Sud Sudan la persistenza del colonialismo sotto altre forme, indissolubilmente legate alla persistenza della supposizione di superiorità dell’uomo bianco. Questi film hanno una forza che conduce a ripensare molto di quel che diamo per scontato. Più di tutto, costringono lo spettatore a domandarsi dei suoi privilegi o delle discriminazioni che subisce, il frutto di meccanismi storici, culturali e politici profondamente radicati nelle società “libere”, che non sono mai stati davvero risolti e che ora riguadagnano terreno con la faccia pulita delle destre europee e americane. Non c’è da essere pessimisti; come dice Baldwin alla fine del film “non posso essere pessimista perché sono vivo”. C’è però ancora molto da capire, e certamente c’è da combattere. Armati di intelligenza, senza opporre ai razzismi altri fondamentalismi, ma provando a costruire la consapevolezza che siamo tutti esseri umani sbattuti dalle pieghe della storia, e che insieme dobbiamo superare i lutti che abbiamo inflitto gli uni agli altri. Come Baldwin provava a fare. (salvatore de rosa)