«Pochi giorni fa le forze dell’ordine hanno sgomberato una casa occupata da cinque famiglie in Via Cuneo», mi ha detto un ragazzo quando ho raggiunto il presidio in piazza Borgo Dora. Un gruppo di cittadini, migranti e militanti si è riunito per reagire agli sfratti e agli sgomberi ordinati negli ultimi mesi dalla Questura di Torino. «Ero con loro per dare una mano quando sono arrivati i carabinieri, la mattina presto». Qualcuno ha montato un amplificatore, altri hanno distribuito dei volantini in arabo e in italiano. Mentre le prime note – secche, dure – hanno iniziato a diffondersi nell’aria pomeridiana del sabato, ho rivolto lo sguardo al fiume, la Dora, che lambisce la piazza e il rione di Borgo Dora.
Ho guardato verso nord e davanti a me ho visto un ponte con un passaggio pedonale in metallo e legno, sull’altra riva comparivano le fronde di alcuni alberi e poco oltre una strada – corso Vercelli – continuava diritta e si perdeva nella periferia di Torino. Sullo sfondo si snodava via Cuneo, dove i carabinieri sono intervenuti la mattina del 2 aprile. Alle mie spalle ho sentito la presenza di Porta Palazzo e ho udito il viavai del rione Borgo Dora, le voci dei venditori di oggetti dismessi; ho immaginato il lieve pendio alla fine di via Borgo Dora che conduce a piazza della Repubblica, là ogni giorno nasce e muore il mercato più esteso della città. Dietro alla piazza, ancora più lontano, si concentrano i palazzi del Quadrilatero, quartiere dalle massicce mura seicentesche e oggetto della più importante riqualificazione degli ultimi decenni. Dalla posizione in cui ero, senza muovere lo sguardo, mi è venuto da pensare che il tratto di città fra la Dora e piazza della Repubblica sia una frontiera: al di là del fiume si distendono i quartieri popolari, giù giù fino all’estremo confine settentrionale; al di qua invece sorgono i quartieri del centro, le piazze dei re, i grattacieli in costruzione.
Ho avuto già quest’idea quando un giorno ho consultato la mappa del ToBike, il servizio di condivisione delle bici. I cerchi verdi delle stazioni si raggrumano nel centro città, fra l’Università, gli uffici amministrativi e gli snodi ferroviari, poi si espandono a sud verso il parco del Valentino e San Salvario, dove si assiepano i locali dello svago notturno. Le rastrelliere raggiungono il quartiere residenziale di prestigio della Crocetta e si rarefanno poco a poco fino a raggiungere le propaggini di Mirafiori. Nei pressi e al di là della Dora, invece, la mappa è deserta: il vuoto inizia con l’area di Porta Palazzo e si estende oltre al fiume fino all’estremo limite della periferia. «Il servizio del bike-sharing – mi ha detto l’assessore alle politiche ambientali – è concesso in gestione a un soggetto privato che beneficia degli spazi pubblicitari delle stazioni. Siamo partiti dal centro e abbiamo esteso gli snodi del ToBike per progressione concentrica». Eppure la disposizione non è omogenea, l’espansione della rete pare evitare alcune aree. «Seguiamo le funzioni specifiche di cui ha bisogno una città smart; per la mobilità degli studenti, per esempio, collaboriamo con i poli universitari. Inoltre dialoghiamo con le aziende, ricordiamo ai mobility manager che la collaborazione per l’installazione delle bici è fondamentale. Con Fiat stiamo concordando una soluzione a Mirafiori e abbiamo chiesto all’azienda di finanziare almeno due stazioni per incrementare la mobilità sostenibile». La distribuzione delle bici traccia sulla mappa urbana il reticolato dei centri di produzione economica e di formazione delle élite. Porta Palazzo e Borgo Dora sono sempre state, nei decenni, i quartieri abitati dai migranti; prima dal sud della penisola, poi dall’Africa del nord. Per questo non sono sfiorati? «Su Porta Palazzo abbiamo avviato diverse riflessioni, a partire da una funzione nuova: la scuola Holden che da poco si è spostata in piazza Borgo Dora. Intendiamo collocare lì una stazione, in futuro».
«Scusa, ma perché intervisti gli assessori? Cosa speri di ottenere?», mi ha domandato una ragazza al presidio. Ho voltato lo sguardo verso la piazza e ho osservato l’antico arsenale, da un anno la nuova sede della scuola di Baricco: un edificio rosso scuro contro il cielo azzurro del pomeriggio, il porticato mangiato dalle ombre e in alto una torretta a dominare la piazza. La porta a vetri dell’ingresso si apriva e si chiudeva senza alcun rumore. Sull’alta balconata sono comparse le sagome di alcuni giovani, dietro di loro una scritta a caratteri maiuscoli ricordava: “Work in progress”. Per lo stesso pomeriggio, ho letto sul sito della Holden, era prevista una lezione di citytelling all’aperto, lungo il fiume: “Immergendoci in alcuni angoli di Borgo Dora e dintorni, ci lasceremo sorprendere dal suo mondo e poi proveremo a dargli una forma”.
Mi sembra di conoscere bene i racconti sull’autenticità del quartiere, un poco losco ma pregno della vitalità che si sprigiona dagli odori delle panetterie arabe e dal fascino esotico delle macellerie halal. Il viavai del mercato di frutta e verdura, i banchetti di brocantes e degli oggetti usati colorano i documentari, gli articoli di costume dei giornali e l’inconscio collettivo. Il discorso multiculturale dà l’impressione di fronteggiare le paure xenofobe che proiettano sul Borgo e su piazza della Repubblica le tinte fosche della criminalità, disegnando uno scenario infestato da venditori di fumo, coltelli sguainati e siringhe abbandonate. Ma le due narrazioni mi paiono complementari. Le ronde dei militari che presidiano Porta Palazzo e il desiderio nostalgico di chi desidera “sorprendere” gli angoli nascosti promuovono la medesima spinta che dal centro muove verso la Dora: il progetto di riqualificazione urbana.
«I narratori e gli atelier degli artisti sono la testa di ponte per rendere appetibile il quartiere», mi ha detto un ragazzo al presidio. «I finanziatori della Holden sono Feltrinelli e Eataly; e poi Lavazza che in concerto con l’amministrazione sta intervenendo su tutta l’area intorno a noi.» Subito oltre il ponte di via Bologna, sul versante settentrionale del fiume, un’area Enel di trentamila metri quadri, dismessa da anni, si sta trasformando nel nuovo centro direzionale Lavazza: sarà un isolato di uffici amministrativi, aree verdi e centri di ricerca. In seguito a un accordo stretto fra Lavazza e il Politecnico di Torino – una nuova collaborazione fra pubblico e privato – l’istituto di arte applicata e design si è spostato negli stabili rimessi a nuovo nell’ala meridionale dell’isolato, in via Pisa. «Proprio in via Pisa una occupazione abitativa di nove famiglie fu sgomberata nel 2008», mi ha raccontato un altro militante. Ricordo una sera di qualche mese fa, quando cercavo una casa in via Parma: la strada all’altezza di via Bologna s’interrompeva all’improvviso, bloccata dalle palizzate di un cantiere immenso; costeggiai le protezioni e ritrovai la via un isolato dopo, ma non mi posi alcuna domanda.
La mia cartina del ToBike, forse, era soltanto una semplificazione a due dimensioni della realtà: le stazioni delle bici non indicano i movimenti profondi e conflittuali del tessuto cittadino e spuntano solo a riqualificazione avvenuta, come a sanzionare il successo dello sviluppo urbano. «Vedi, la tua teoria del confine fluviale non funziona. A guardare la situazione da qui non si può tracciare una separazione netta. I tentativi di valorizzazione avvengono da una parte come dall’altra della Dora, non sono continui ma frammentati», ha affermato qualcuno al mio fianco.
Alla fine del pomeriggio ho percepito la striscia fluviale come un nastro attraversato da tensioni profonde. Ho immaginato le forze del rinnovamento come onde che montano dal centro e tendono a spingere oltre Dora, verso nord, il malessere. Da laggiù sono giunti i militanti e le famiglie sfrattate che ho conosciuto; loro hanno attraversano il ponte dai quartieri al di là del fiume per portare su questa sponda la loro rabbia. Le loro voci si sono diffuse dagli amplificatori, hanno sfiorato gli edifici silenziosi e si sono dirette verso i cittadini che s’aggiravano fra i banchetti del mercato delle pulci; le onde sonore si sono insinuate fra i vecchi quadri, i libri, gli attaccapanni, le tazzine di caffè sulle tovaglie e le sedie dei locali scaldate dal sole. (francesco migliaccio)